Matteo Renzi: quello che non torna
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Matteo Renzi: quello che non torna

Dalla legge elettorale all'autoinvestitura senza passare dal voto fino agli F-35: c'è qualcosa che non mi convince del sindaco d'Italia

Sul governo Renzi e in particolare sul premier esprimerò una opinione non allineata, una dissenting opinion visto che l’inglese va molto di moda. Per dirla nel linguaggio corrente, alla domanda «ma a te… te piace ’o presepe?» rispondo serenamente: «No, nun me piace». La mia non è una posizione anticonformista in questo brodino di retorica intorno al Bambinello che piace praticamente a tutti (dai giornali ai talk show televisivi, dai sindacati agli imprenditori, dalla minoranza del Pd a fette di Forza Italia). Ci sono troppe cose che (ancora) non tornano.

Cominciamo dalle legge elettorale. Fino a quando non verrà approvata saremo in uno Stato a democrazia limitata, dal momento che è in vigore una legge amorfa e pasticciata frutto di una sentenza della Corte costituzionale. Consegnare all’Italia il nuovo sistema di voto sul quale Matteo Renzi e Silvio Berlusconi si sono accordati il 18 gennaio significa ridare dignità e credibilità alla politica. Ed è sulla base della capacità di mantenere questo impegno che si misura la credibilità del presidente del Consiglio. Il quale, allo stato, appare piuttosto prigioniero delle più consumate pratiche della politica politicante.

Non solo. Se continua a rimanere nell’angolo dove l’hanno costretto i nemici delle riforme, cioè quei partitini che, bloccati dallo sbarramento, potrebbero sparire se dovesse passare la nuova legge, corre pure il rischio di venire meno ancora una volta alla parola data. E questo non sarebbe un buon segnale. Piccolo passo indietro. L’accordo di gennaio parlava chiaro e aveva in sé una corretta consecutio temporum istituzionale: approvazione della legge elettorale, superamento del Senato, riforma del Titolo V della Costituzione.

Poco dopo quell’accordo, Renzi rivolse su se stesso la bacchetta magica e si trasformò da segretario del Pd in premier, licenziò Letta e andò a Palazzo Chigi smentendo se stesso («Mai al governo senza legittimazione popolare»).  Per farlo dovette abbracciare i partitini e così si assicurò una maggioranza (dal Pd all’Unione sudamericana emigrati italiani sono 14, diconsi quattordici, i partiti che hanno votato la fiducia). Bene, l’accordo Berlusconi-Renzi che prevedeva una nuova legge elettorale in grado di portare «al consolidamento dei grandi partiti in un’ottica di semplificazione dello scenario politico» è stato buttato nel pantano proprio dai piccoli partiti: vuole il segretario del Pd e premier tirarlo fuori in fretta?

Ed ecco altri rapidi motivi per cui, proprio no, ’o presepe nun me piace. Sui tagli di spesa il governo è sulla buona strada per incasellare una figuraccia epica. Perché non si improvvisa una sacrosanta battaglia come questa, non si parte tanto per cambiare dai pensionati, non si indicano miliardi da risparmiare nel 2014 (prima 7, poi 5, poi 3, ma alla fine se sarà 1 come annota il professor Gustavo Piga a pagina 48 sarà grasso che cola) con la disinvoltura che ciascuno ha potuto vedere e annotare. Giusto per fare un esempio di improvvisazione: se si vuole rottamare una portaerei e si vogliono tagliare gli aerei F35 bisogna avere chiaro che tra pochi anni non conteremo nulla nei tavoli diplomatici che decidono sulle crisi (sempre più frequenti) internazionali. Faremo la figura dell’Italietta che, quando ci sarà da stabilire se intervenire o meno militarmente, difficilmente sarà consultata. E quindi, spiacente, a me ’o presepe nun me piace.  

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Giorgio Mulè