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Il suicidio di un adolescente, oltre l'hashish

Il problema è l’inafferrabile solitudine dei figli. Il salto nel vuoto di ogni giorno. Si può sbagliare per amore, ma sbagliare per amore non cancella l’errore

Che cosa passa nella testa di Gio quando vede i finanzieri chiamati dalla madre frugare nei suoi cassetti alla ricerca dell’hashish? Che cosa prova a vedersi in quella situazione surreale per lui irrimediabile?

Quale solitudine deve vivere o rivivere? C’è il buio dentro di lui. Gio si allontana leggero, va in un’altra stanza, apre la porta-finestra, si getta nel vuoto per tre piani. Quel vuoto che la madre in chiesa, ai funerali, dirà di non essere riuscita a colmare. Era figlio adottivo, Gio. Amatissimo. Ma solo. Aveva 16 anni.

Succede che i genitori si concentrino su singoli problemi: la droga, per esempio. Ma la droga è solo un sintomo, una conseguenza. Un problema grande, ma non centrale. Dietro le canne c’è altro... Certo, nessuno può giudicare. Chi di noi conosceva Gio? Chi la mamma? Chi la storia di quella famiglia? Chi i sogni, le paure di quel ragazzo?

Chiamare i carabinieri, i finanzieri, la polizia, per risolvere alla radice il problema che fronteggi in casa può apparire un atto di coraggio. Forse lo è, forse però no. Forse è stato un errore. Un gesto di disperazione. Dietro lo sballo di tuo figlio c’è la solitudine, c’è il silenzio. Quello che Antonella denuncia come il vero dilemma. Il dialogo impossibile. Il silenzio delle chat, degli smartphone, del non saper parlare guardandosi negli occhi, del consumare il tempo. Del non avere un punto di riferimento. Non trovare conforto in un maestro, una fidanzata, la famiglia.

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La mente di un adolescente è un universo scivoloso. Il mondo a volte può ferire, travolgere una sensibilità fragile, una coscienza agitata. I genitori sono avvolti nella cecità di un amore che impedisce di guardare nel cuore dei figli. Le canne, l’hashish, saranno pure un problema, ma la morte come punizione auto-inflitta è del tutto sproporzionata. Incomunicabilità testarda fino al delirio.

Ho ascoltato non molto tempo fa un’altra terribile arringa di una madre davanti al corpo del figlio nella camera ardente di un obitorio. Anche lui morto per un’incapacità di conciliarsi con la vita, a dispetto della grande forza e del talento (non era più un adolescente). Pure lì, parole accorate di una madre agli amici del figlio, un ammonimento gelido, senza lacrime, un invito a evitare certe feste, a frequentare certi amici, a non consegnarsi alla deriva della vita, laddove non c’è un padre o una madre a fare da scoglio, da scudo.

I figli: un mistero che si aggira in casa. Solitudini che non comunicano. Vuoti da colmare, pieni di sogni astratti e aspirazioni senza oggetto, da ingannare con l’incanto di un’ebbrezza da poco.

Non è la droga il problema. Non è la scuola. Non è la balordaggine, né il furto. Il problema è l’inafferrabile solitudine dei figli. Il salto nel vuoto di ogni giorno. Il disagio inespresso e inascoltato. L’amore di una madre può non bastare a salvare dal precipizio. Chiamare i finanzieri per frugare nella stanza di Gio non è coraggio. È disperazione.

È un’esasperata volontà di salvataggio che rischia di chiudere ogni dialogo, invece di aprirlo (e che nella sua drastica facilità rende tutto più complicato). Chiamare i finanzieri è una scorciatoia come gettarsi nel vuoto. E si può sbagliare per amore, ma sbagliare per amore non cancella l’errore.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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