L'applauso e la maglietta
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L'applauso e la maglietta

Tutti ad attaccare i poliziotti sul caso Aldrovandi, per Raciti solo silenzio

Sì, certo, una vergogna gli applausi ai poliziotti che hanno picchiato a morte Federico Aldrovandi. Tutti a indignarsi, a scandalizzarsi, a dare addosso alla violenza di Stato. Ignorando le frustrazioni, la violenza, l’indifferenza che poliziotti e carabinieri sono costretti ogni giorno a sopportare rischiando la vita per uno stipendio da fame, esponendosi al ludibrio di passare per picchiatori o, peggio, assassini, se sparano e sono perciò automaticamente “iscritti nel registro degli indagati”. Ma nessuno che avesse avuto un sussulto pubblico, un riflesso di rabbia e vergogna per la scritta “Speziale libero” sulla maglietta di “Genny ‘a carogna” davanti a migliaia di spettatori allo stadio Olimpico (e telespettatori in tutta Italia). Nessuno che abbia sentito come un’offesa, una bestemmia, l’inneggiare all’assassino di un poliziotto. Speziale è Antonio Speziale, il tifoso del Catania che il 2 febbraio 2007 uccise il poliziotto Filippo Raciti. Libero perché? Vecchia storia. Uccidere un poliziotto non è reato. Non stupisce che in un blitz tra i curvisti del Napoli siano state trovate magliette con scritto: “Mi diverto solo se a morire è uno sbirro”.   

I poliziotti sono morti di serie B e, se feriti, pupazzi da ignorare. Contro i poliziotti è lecito scagliare sampietrini, bottiglie molotov, bombe carta, in qualche caso anche sparare. Perché il poliziotto è uno “sbirro”, è il braccio del potere malefico che ci tiene la scarpa sul collo. Il poliziotto non è un essere umano come gli altri, non è “uno di noi”, è stipendiato per esercitare la violenza di Stato che soffoca chi vorrebbe un paradiso in terra fatto di “cannoni” di fumo, risse allo stadio e bancomat da  scardinare. I poliziotti devono tutti essere professionisti che incassano e non reagiscono. Che ci difendono senza colpire. E non devono protestare se i malviventi il giorno dopo sono già fuori. Sì, oggi mi sento sbirro anch’io, voglio usare lo stesso bianco e nero col quale c’è chi passa idealmente un frego su poliziotti e carabinieri, birilli col casco, volti anonimi del Potere senza volto. C’è chi si preoccupi di come sta il vigile del fuoco colpito nel lancio di petardi e bombe carta? Vittima inevitabile del “folclore”.  

Io non ci sto. È vergognoso che dai commentatori dei giornali ai vertici dello Stato, dai ministri al presidente Napolitano, tutti si siano precipitati a condannare gli applausi ai poliziotti assassini e nessuno abbia avuto subito da protestare e indignarsi per l’applauso a Speziale del riconosciuto leader degli ultras del Napoli. Leader, perché ha trattato a pieno titolo l’inizio della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Il figlio del camorrista del Rione Sanità, a nome di quella massa amorfa alle sue spalle, ha dettato legge allo Stato, a cavalcioni delle grate, col capitano del Napoli ai suoi piedi. Checché ne dicano adesso le cosiddette “autorità”, è stato lui a dare il fischio d’inizio (dopo i fischi all’Inno di Mameli) con un ritardo di 45 minuti in conseguenza del triplice tentato omicidio fuori dallo stadio, una rissa fra ultras romanisti e del Napoli degenerata in sparatoria. Tutti abbiamo visto sulle tribune il premier Matteo Renzi e il presidente del Senato, Pietro Grasso. Ma le telefonate di solidarietà a Marisa Grasso, vedova Raciti, sono arrivate soltanto il giorno dopo, e solo sull’onda delle polemiche. L’Italia si è inchinata a Genny ‘a carogna e ai camorristi, agli ultras violenti, a chi vuole che torni libero l’assassino di un poliziotto. Non è un caso che a un morto come Carlo Giuliani, ucciso mentre assaltava i carabinieri al G8 di Genova, sia stata intitolata una sala al Senato, l’ufficio di presidenza del gruppo di Rifondazione comunista (Napolitano dichiarò di rispettare l’autonomia della scelta) e che la madre Haidi sia diventata  senatrice, mentre ci s’inginocchia alla maglia di Genny: “Speziale libero”. Perché Raciti non era un ribelle, né un ultras. Era solo un poliziotto. 

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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