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PIERRE-PHILIPPE MARCOU/AFP/Getty Images
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Catalogna come la Jugoslavia? Tutte le analogie

La logica vuole che la Catalogna non precipiti nell’inferno della guerra civile. Ma la storia, spesso, non segue la logica. Segue il cuore o la pancia

E se la crisi catalana riportasse l’Europa sull’orlo di una guerra civile come quella che sconvolse negli anni ’90 la ex Jugoslavia?

Nessuno lo dice, nessuno ne parla. Perché la sola evocazione della parola, ex Jugoslavia, ci fa andare col pensiero alla più grande tragedia che abbia colpito il continente dal Dopoguerra a oggi. Un conflitto di dieci anni che ha provocato oltre 100mila morti e la disgregazione di un Paese che per quanto retto da una dittatura, aveva elevato la pacifica convivenza tra etnie e religioni a stile di vita e rango costituzionale.

Le guerre jugoslave, dalla Slovenia alla Croazia fino alla Bosnia Erzegovina e al Kosovo, hanno via via infranto il mito del multiculturalismo e di un federalismo fondato sulla collaborazione. Si potrebbe anche discutere sul ruolo che la guerra serbo-croata e poi bosniaca ha avuto nel resuscitare un revanscismo islamista laddove nella capitale della Bosnia, Sarajevo, l’essere musulmani era stato invece riconosciuto come nazionalità-cuscinetto tra serbi e croati proprio per la natura tollerante, aperta, non estremista dell’Islam degli slavi del Sud.

Eppure, le analogie tra la situazione catalana e quella della Jugoslavia agli inizi della guerra nel 1990 sono impressionanti. In sintesi:

  1. Il cuore del problema è il perimetro dell’autonomia, che i croati come oggi i catalani, volevano estendere fino a trasformarla in totale indipendenza, sancita da una secessione. Croazia e Slovenia erano le regioni più ricche della Jugoslavia, quelle che versavano più soldi alle casse centrali dello Stato, e che ricevevano in cambio meno di quanto sborsavano. Accanto alla rivendicazione finanziaria e fiscale c’era poi quella storica basata su cultura e identità proprie (nel caso della Croazia anche sulla religione cattolica contrapposta a quella ortodossa dei serbi). E se restiamo al confronto tra Croazia e Serbia paragonato a quello tra Catalogna e Spagna, colpisce pure che sia i croati sia i catalani hanno una lingua diversa da quella dei loro fratelli-coltelli (anzi, la lingua catalana si discosta molto di più dallo spagnolo castigliano di quanto non fosse diverso il croato dal serbo, che si distinguono per poche parole e una diversa pronuncia: diverso è per lo sloveno che è proprio una lingua a parte).

  2. All’origine sia dello strappo croato che di quello catalano c’è poi una delicata questione costituzionale, che nel caso della Croazia era incerta. I croati potevano ragionevolmente sostenere che l’adesione alla Federazione jugoslava fosse revocabile tramite un referendum, che peraltro si svolse in modo accettabile per i canoni democratici. Inoltre, nel direttorio che dopo la morte di Tito guidava il Paese la presidenza ruotava tra i capi delle diverse Repubbliche. Il problema si pose quando la presidenza toccò ai croati. Nel caso invece della Catalogna, non c’è dubbio che il referendum fosse illegale (e si è svolto senza alcuna garanzia di legalità). La Costituzione spagnola sul punto è chiarissima: la Spagna è unica e indissolubile.

  3. La contrapposizione tra le due capitali passa anche attraverso il calcio. Anzi, i prodromi della guerra civile jugoslava e la stessa formazione dei gruppi paramilitari serbi e croati passarono per le tifoserie calcistiche dei club. Arkan, il terribile capo cetnico, era il comandante della “curva” della Stella Rossa di Belgrado. Radovan Karadzic, il criminale di guerra capo dei serbi di Bosnia, era stato psichiatra motivatore nella squadra serbo-bosniaca. Addirittura i primi scontri a sfondo nazionalista ebbero luogo allo stadio, nella capitale croata Zagabria. E tutti i media si sono dilungati sul ruolo che hanno avuto nel far crescere le rivendicazioni separatiste della Catalogna i calciatori del Barca, il Barcellona.

  4. L’aspetto più pericoloso delle tensioni che si sono avute il giorno del referendum in Catalogna è stato quello relativo al confronto tra uomini delle forze dell’ordine. Da un lato la Guardia Civil che era stata mandata da Madrid con migliaia di rinforzi (fino a 10mila agenti), dall’altro la polizia locale catalana, i Mossos d’Esquadra, che nel momento della verità hanno dimostrato di essere leali alle autorità di Barcellona, non a Madrid. Senza contare le manganellate della Guardia Civil ai pompieri catalani che cercavano di proteggere i seggi. Anche nella Ex Jugoslavia lo scontro ha visto via via una radicalizzazione delle posizioni tra un esercito federale rivelatosi sempre più “serbo” e i “gardisti” croati, in pratica i poliziotti e le loro unità speciali.

In conclusione, le analogie sono molte. Ovviamente, tutti gli osservatori sottolineano le differenze. La Jugoslavia veniva da un lungo periodo di dittatura e nel passato serbi e croati si erano massacrati vicendevolmente, inoltre il problema si è posto perché all’interno della Croazia c’erano forti minoranze e enclave serbe (come in Bosnia Erzegovina, dove addirittura la contrapposizione ha riguardato tre comunità: serbi, croati e musulmani).

La logica vuole che la Catalogna non precipiti nell’inferno della guerra civile. Ma la storia, spesso, non segue la logica. Segue il cuore. O, peggio, la pancia.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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