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Caso Regeni: la necessità di trattare

La decisione di rimandare l'ambasciatore d'Italia in Egitto è importante: la "ragion di Stato" deve guidare le azioni di Governo

Ci sono diverse buone ragioni per cui la scelta di rimandare l’ambasciatore d’Italia in Egitto (il neo-designato Giampaolo Cantini) è stata non soltanto necessaria ma addirittura tardiva.

È vero, l’Egitto del generale Al Sisi non ha ceduto alle pressioni italiane per avere una verità credibile sulla barbara uccisione di Giulio Regeni.

Né i verbali d’interrogatorio di alcuni ufficiali di polizia possono considerarsi sufficienti, di per sé, a riallacciare rapporti con il Cairo dopo il richiamo nel nostro rappresentante, Maurizio Massari (oggi a Bruxelles), nell’aprile 2016.

Uno Stato come quello italiano non può però limitarsi alla tutela dei diritti individuali di un proprio cittadino.

I familiari di Giulio hanno ragione a denunciare una “dignità calpestata”, ma ha torto Amnesty a parlare di “frettolosa decisione di Ferragosto”. È stata, invece, una decisione molto ponderata, in considerazione del ruolo che l’Egitto svolge nell’area.

E della sua rilevanza strategica per noi. Al sodo, chi stigmatizza la “ragion di Stato” dietro la svolta, come qualcuno della Sinistra italiana, mostra di non capire che la “ragion di Stato” è una ottima e sacrosanta ragione che “deve” guidare le azioni di governo.

Berlusconi a suo tempo ebbe la preveggenza di lavorare, in linea con i governi precedenti ma con maggiore efficacia, per stabilire rapporti solidi coi leader dei Paesi del fronte sud del Mediterraneo. Erano leader-dittatori, ma garanti di una stabilità che adesso rimpiangiamo, perché le cosiddette primavere arabe hanno portato caos e guerre, non democrazia.

La Tunisia è l’unico caso di una relativa libertà subentrata al regime di Ben Ali. Con l’Algeria di Bouteflika abbiamo rapporti che con Berlusconi erano anche più intensi per via del rapporto personale tra i due. Ma il vero buco nero della politica mediterranea italiana è rappresentato da Egitto e Libia. Due paesi strettamente legati. Berlusconi poteva considerarsi amico personale di Mubarak e Gheddafi.

Con l’Egitto si era persino deciso di tenere vertici intergovernativi ogni anno e qualcuno era stato celebrato sul Mar Rosso, per cementare scambi commerciali e cooperazioni economiche importanti in diversi settori, dal turismo all’energia (un po’ meno nella difesa, appannaggio dei francesi che giustamente non hanno mai avuto il nostro “pudore” di produttori di armi).

Il Cairo, dopo il richiamo del nostro ambasciatore, ha imboccato invece la strada dell’intesa privilegiata con Parigi, che in Nord Africa ha interessi che confliggono con quelli italiani. Di qui, anche, l’appoggio al generale Haftar, l’uomo forte di Bengasi, contro il premier riconosciuto da Italia e Onu, Fayyez Al Sarraj.

L’impossibilità di riunificare la Libia sotto un unico governo effettivo e la sfida aperta di Haftar alla Tripolitania delle milizie di Misurata e di Al Sarraj, hanno minato finora qualsiasi accordo serio con la Libia per la regolazione dei flussi migratori e il contrasto ai trafficanti di esseri umani.

L’incapacità italiana di dialogare con Al Sisi ha messo in pericolo sia la cooperazione economica (specialmente dopo la scoperta da parte dell’Eni di un importante giacimento marino di gas di fronte all’Egitto), sia il sistema di alleanze nordafricane e mediorientali dell’Italia funzionali alla nostra sicurezza e all’efficacia delle politiche migratorie.

Questa situazione è durata finora quasi un anno e mezzo, mentre a Roma si aggirava nei corridoi della Farnesina l’ambasciatore Giampaolo Cantini, l’uomo che avrebbe dovuto riprendere in mano, al Cairo, tutti i dossier dimenticati.

Compreso quello di Regeni, che mai potrebbe arrivare a soluzione senza l’interessamento costante di un rappresentante diplomatico nel pieno dei poteri, insediato nella nostra Ambasciata e in grado di interloquire di persona con Al Sisi e il governo egiziano.

Quindi mettiamo da parte le ipocrisie. Dialogare con i dittatori rientra nei doveri di uno Stato che esercita un ruolo internazionale e persegue i propri interessi nazionali (meglio il generale Al Sisi di un Al Baghdadi egiziano).

E in generale, dialogo e realismo sono necessari per non perdere, oltre alla faccia, anche la partita della lotta agli scafisti, del controllo delle frontiere, delle influenze su un’area per noi strategica come il Mediterraneo. Non si tratta di sacrificare la verità su Regeni, ma di perseguirla meglio, e di non lasciare alla Francia un’iniziativa che in Libia si è dimostrata catastrofica non solo per noi, ma per tutta l’Europa.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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