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ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Dietro la Consip le macerie dello stato

Una torbida storia, paradigma di un'epoca che doveva essere di virtuosa rottamazione ma in cui il gioco perverso della politica ha calpestato le istituzioni

"Io sono un fedele servitore dello Stato, faccio il mio lavoro fino in fondo, fino all'ultimo giorno. C'è l'assemblea il 27 e finisce questa esperienza bellissima. È stato un onore lavorare per Consip e per lo Stato italiano". A parlare è l'ad di Consip, Luigi Marroni, al termine dell'incontro del 23 giugno con il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone e dopo la decisione del ministero dell'Economia di far dimettere i suoi rappresentanti nel cda della centrale pubblica degli acquisti in seguito all'inchiesta che sta sconvolgendo l'intera società. Nell'editoriale del numero 27 di Panorama, firmato dal direttore Giorgio Mulè, l'analisi della vicenda.

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La vicenda Consip finisce nel peggiore dei modi. Perdono tutti in questa storia, anche chi si illude di avere vinto.

Facciamo un veloce riassunto. Luigi Marroni è l'amministratore delegato dell'azienda statale che gestisce gli appalti miliardari per gli acquisti della pubblica amministrazione: arriva in questa delicatissima posizione nominato da Matteo Renzi nel 2015. Lavora bene e tutti, a cominciare dal suo azionista e cioè il ministero dell'Economia, glielo riconoscono.

Succede sul finire del 2016 che Marroni viene interrogato dopo aver "bonificato" l'ufficio da microspie: ai magistrati che gliene chiedono conto racconta di essere stato messo in guardia dell'esistenza di un'inchiesta intorno a Consip da quattro persone. Uno dei quattro è il ministro Luca Lotti. Il manager, inoltre, mette a verbale con particolari assai precisi le presunte e reiterate pressioni che avrebbe ricevuto da Tiziano Renzi, papà dell'ex premier, affinché agevolasse un amico di famiglia nelle gare di appalto Consip.

Quando all'inizio del 2017 la vicenda esplode sui giornali, Marroni fa un passo che gli rende onore: non è indagato, non è sfiorato da alcun sospetto eppure "sia per tutelare l'azienda sia per la mia persona" rimette nel febbraio scorso il mandato al governo. Fa questo passo una seconda volta, a marzo. Il ministro Pier Carlo Padoan le rigetta in entramb ii casi e lo invita ad andare avanti, addirittura fino alla scadenza del mandato nel 2018.

Succede poi, il 15 giugno, che il presidente di Consip (altra persona alla quale sarebbe stata soffiata l'esistenza dell'inchiesta) finisce indagato per "false informazioni" e si dimette. E qui succede il papocchio. Perché il Pd del segretario Renzi e dell'indagato ministro Lotti riesuma una mozione che giace da 100 giorni (cento!) al Senato, il cui scopo è quello di far dimettere il non indagato e ingombrante Marroni al quale è stata rinnovata la fiducia a più riprese e nei confronti del quale non è sopravvenuto alcun fatto nuovo.

Quando però, fatti due conti, il Pd capisce di potere andare incontro a una clamorosa bocciatura in aula che avrebbe l'effetto boomerang di far scricchiolare il governo batte in ritirata chiedendo di evitare l'esame del voto in Senato. Il destino di Marroni è ovviamente segnato, dovrà in ogni caso lasciare il posto.

E sarà questa la dimostrazione che il gioco perverso della politica ha calpestato il senso delle istituzioni, che la salvaguardia del piccolo mondo antico di Rignano e dintorni ha prevalso sul sacro rispetto della giustizia, che l'arroganza del potere si è imposta sulla virtù della buona amministrazione e della tanto decantata meritocrazia.

Il fetore di questa torbida storia è destinato ad ammorbare le istituzioni per molto tempo ancora e racchiude in sé il paradigma di un'epoca che doveva essere di virtuosa rottamazione ma che invece, nel nome della difesa di un familismo rapace, si lascia dietro solo le macerie dello Stato.

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Giorgio Mulè