Turchia, la piazza a sostegno di Erdogan
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C'è alle porte un feroce saladino

Oggi la Turchia è una bomba innescata nel cuore dell’Europa. E si rischia una crisi dai risvolti imprevedibili

Reichsparteitagsgelände: lo so che sembra uno scioglilingua, ma tenerlo a mente è di una certa utilità. Quel nome astruso (letteralmente significa «area del giorno del partito del Reich») rimanda a Norimberga e indica il luogo delle adunate naziste negli anni Trenta. A Istanbul, nella spianata di fronte al Mar di Marmara e Yenikapi, il 7 agosto è accaduto un fatto simile. Una folla oceanica, come mai si era vista, inneggiava al suo Capo, a Recep Tayyip Erdogan. Un tappetto rosso fatto di bandiere con la mezzaluna osannava il presidente, al posto delle camicie brune care a Hitler c’era un esercito di manifestanti vestiti di bianco e di rosso.
Erdogan si è rimesso a loro: se il popolo della Turchia vuole la pena di morte, ha scandito, così sarà. E ancora una volta, in quella che tutti i media mondiali hanno chiamato "l’adunata di Istanbul" e che riproiettava le immagini in bianco e nero di Norimberga, una voce lontana ma ancora troppo vicina nel tempo ammoniva: "Ein Volk, ein Reich, ein Führer", «"un popolo, un Reich, un Führer". Perché sempre di più, dopo il fallito golpe di metà luglio, Erdogan si appella alla volontà «del popolo». E lo fa nel solco della storia di ogni dittatore, dopo aver dispiegato i peggiori metodi della repressione a cominciare dalle persecuzioni contro giornalisti e intellettuali non allineati.
Oggi la Turchia è una bomba innescata nel cuore dell’Europa. Ed è quella stessa Europa, messa all’indice dal presidente turco, che non riesce a trovare margini per riannodare un dialogo. Rischiamo una crisi dagli sviluppi imprevedibili. La Turchia è la chiave di volta di tutti gli archi della geopolitica internazionale: terrorismo, guerra all’Isis, Siria, conflitti mediorientali, profughi e immigrazione. Dal suo atteggiamento su ognuno di questi fronti dipende l’involuzione o la soluzione dei problemi. Deluso dall’Europa e in aperto contrasto con gli Stati Uniti, anche per la vicenda del presunto ispiratore del golpe Fethullah Gülen, il turco rifugiato in Pennsylvania, Erdogan si è buttato tra le braccia dell’ex nemico Vladimir Putin. Che dal canto suo smania dalla voglia di prendere a schiaffi l’Europa delle sanzioni e dell’embargo, la Nato che schiera i suoi battaglioni ai confini dell’ex impero sovietico, l’America di Barack Obama ritenuta il principale nemico quanto e più dei tempi della guerra fredda. Da questo incrocio di odio e interessi nasce l’alleanza tra Turchia e Russia, imprevista e impensabile solo pochi mesi fa, che sfocia in una pericolosissima neo triplice alleanza con il coinvolgimento dell’Iran; l’Iran degli ayatollah. È lì che guardano i due leader, per ragioni economiche e per assestare l’ennesimo uppercut all’Occidente: dall’Iran, infatti, può passare il gasdotto che con il benestare di Ankara metterebbe fuori gioco quello dell’Europa, disegnato per bastonare Mosca e appoggiato fino a poche settimane fa dalla stessa Turchia. Putin si è già portato avanti con il corteggiamento di Teheran: costruirà due nuovi reattori nucleari a Bushehr per 10 miliardi di dollari, consegnerà entro la fine del 2016 150 missili S-300 terra-aria a lunga gittata mentre progetta nuove vie di commercio verso l’Oriente.
Da questo quadro, con gli Stati Uniti appesi all’esito di un’elezione indecifrabile (nei rapporti con la Russia conviene augurarsi la vittoria dell’"amico" Donald Trump o della "nemica" Hillary Clinton?), l’Europa dilaniata da mille tempeste rimane appesa a un filo. Senza un leader e con l’interrogativo di sempre: quale numero di telefono bisogna comporre, per avere un interlocutore affidabile?

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Giorgio Mulè