Una sola via obbligata: la pacificazione
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Una sola via obbligata: la pacificazione

Non si può eliminare un avversario scomodo per via giudiziaria, dopo averlo aggredito con decine e decine d’inchieste

Quando Silvio Berlusconi, dopo aver meditato una settimana sulla nota di Giorgio Napolitano, ribadisce con forza che «non molla» e che rimane il capo del centrodestra, compie due atti. Uno è squisitamente umano e di ribellione nei confronti di quanti, soprattutto nel Partito democratico, dopo la sentenza della Cassazione hanno riscoperto la massima nazisteggiante per cui «l’antiberlusconismo è un valore», come predica Marco Travaglio, rilanciato dalla sua discepola Rosy Bindi.

L’altro è un atto puramente politico e risponde a una delle questioni sollevate da Napolitano, quando scriveva che «toccherà a Silvio Berlusconi e al suo partito decidere circa l’ulteriore svolgimento – nei modi che risulteranno legittimamente possibili – della funzione di guida finora a lui attribuita».

Berlusconi dunque ha deciso: non si fa da parte, non passa il testimone e rimane il leader dei moderati. Quali
saranno i modi «legittimamente possibili» per esercitare il ruolo è invece un copione ancora da scrivere e riguarda l’ormai nota «agibilità politica» invocata a gran voce per il Cavaliere non solo dagli esponenti del centrodestra ma da chiunque abbia ancora la mente libera dal pregiudizio. Il macigno della pena da espiare assieme all’eventuale decadenza da senatore rappresentano le due forche caudine che potrebbero impedire a Berlusconi di continuare a fare politica liberamente e liberamente rappresentare i suoi 10 milioni di elettori. Ma sarebbe sbagliato tentare di sciogliere i nodi con dispute da azzeccagarbugli o, peggio, con tecniche
di rinvio che offrono solo l’alibi di non affrontare di petto la questione centrale.

E tutto questo, si badi bene, non perché si vuole disconoscere la legittimità del potere giudiziario, per quanto
afflitto da una devastante faziosità persecutoria. Ma per un altro motivo: i nodi vanno sciolti politicamente. Perché è nella politica che si è sviluppata, negli ultimi 20 anni, la storia di Berlusconi; perché è di matrice politica l’accanimento giudiziario che lo ha colpito ed è alla politica dunque che il suo caso va restituito. In un solo modo: con una solida e reale pacificazione. Si tratta di un percorso già tracciato dal capo dello
Stato quando, nella sua nota del 13 agosto, invoca la necessità di superare «le distorsioni da tempo riconosciute di uno scontro distruttivo», quando sollecita «ogni realistica presa d’atto di esigenze più che mature di distensione e di rinnovamento nei rapporti politici».

Il risultato non si potrà mai raggiungere con l’ossessiva caccia all’uomo, con la speranza di eliminare Berlusconi per via giudiziaria, magari sperando in un suo arresto dopo averlo privato dello scudo parlamentare. La presidenza della Repubblica può, politicamente, superare la logica dei «severi moniti» e dare un primo segnale concreto come ha già fatto in un recente passato. Mi riferisco al caso del colonnello americano Joseph Romano, condannato a 7 anni per il rapimento di Abu Omar e graziato anche per le pene accessorie dopo appena 6 mesi dalla sentenza definitiva e nonostante la sua latitanza: un atto di clemenza nel quale è difficile non riconoscere una «ragion di stato».

Alla parte matura e dialogante del Pd, se veramente crede nella stabilità e nella forza della politica, tocca invece il compito di abbandonare la logica del quieto vivere e di imporsi su quella fazione intransigente e maramalda del partito che ormai, con tutta evidenza, combatte solo una guerra ad personam.
Perché, di sicuro, dalla pericolosissima situazione in cui versa l’Italia (sempre esposta ai venti della speculazione) non si esce con i codicilli. Né tantomeno con l’ipocrisia di non vedere ciò che è invece sotto gli occhi di tutti.

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Giorgio Mulè