Yara Gambirasio
ANSA/PAOLO MAGNI
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Le indagini su Yara, ricapitoliamo

Dna, telefonini, celle, solarium, ricordi. L'inchiesta è ricca di indizi ma restano molti dubbi sulla colpevolezza di Giuseppe Bossetti

Riepiloghiamo. Dalle indagini sul “caso Yara Gambirasio” emergono altri particolari sul possibile coinvolgimento di Massimo Giuseppe Bossetti nell’assassinio della tredicenne ginnasta di Brembate Sopra. I dettagli non mancano mai, nelle inchieste e sui quotidiani (dalle une agli altri il passaggio avviene in tempo reale). Per il momento, a selezionarli e distribuirli “sembra essere”, per dirla con un eufemismo, qualcuno che lavora per l’accusa. 

Ecco apparire d’incanto, dopo tre anni e mezzo, i filmati “visti e rivisti” delle telecamere disposte lungo i percorsi della vittima. Yara uscì dalla palestra la sera del 26 novembre 2010, ma non riuscì a completare i 700 metri di strada che dovevano portarla a casa. Nelle immagini del Banco Veneto fa capolino un furgone che “dovrebbe essere proprio quello di Bossetti”. Un indizio “clamoroso”, lo definisce “La Stampa”, perché il veicolo sembra passare e ripassare. “Segno, secondo gli investigatori, che il guidatore stava ‘controllando’ la zona”. Nessun dubbio o condizionale nel titolo: “Quel pomeriggio Bossetti controllava la casa di Yara”

Su “Repubblica”, invece, ecco spuntare i 10 cellulari di Bossetti, “numero sorprendentemente alto”, passati ovviamente “al setaccio”. Ma: telefonini o schede telefoniche? La domanda che si fanno giornalisti e inquirenti è perché Bossetti, tornato a casa e messo in carica il cellulare scarico che quel pomeriggio si era agganciato alla stessa “cella” di Yara, non abbia acceso un altro dei suoi tanti cellulari.

Altra domanda: “perché la moglie tace sui computer?” (cioè, non vuol rispondere su chi li usava). Che fa il paio con l’altra, emersa nelle cronache qualche giorno prima, sul “perché la moglie non ricorda che cosa ha fatto il marito” quella sera (di tre anni e mezzo fa). Domanda che riferita all’interrogatorio di Bossetti si ribalta e diventa: “Perché Bossetti ricorda così bene che cosa ha fatto quel giorno di tre anni e mezzo fa?”.

Le indagini sono dipinte come una grande “caccia all’errore”. All’errore eventualmente commesso da Bossetti nel ricostruire i propri movimenti, e in generale nelle sue risposte ai magistrati. La caccia all’errore sembra il gioco del gatto col topo. Caccia alla contraddizione, al particolare che non torna, all’incertezza, all’incongruenza che t’incastra, ti smentisce, ti frega. Ricostruzione dei fatti o costruzione dell’accusa? Ci sono i ricordi del fratellino di Yara sull’individuo “col pizzetto” che le metteva paura. C’è l’interrogatorio della fidanzata di Bossetti a 15 anni (oggi lui ne ha 44) e il racconto della sua reazione “irruente” quando fu lasciato. C’è la notizia dell’esistenza, non confermata, di altre (nuove?) tracce organiche sugli indumenti di Yara oltre a quella di sangue (che non è certo sia sangue), il cui profilo genetico incastrerebbe l’accusato. E c’è l’insistenza sui “segreti” della mamma dell’accusato, condivisi col figlio. Ma nessuno si chiede come mai, se il “segreto” del figlio illegittimo era da lui condiviso, la donna si sia sottoposta spontaneamente al test del Dna nel 2012. E perché non risulti che Bossetti stesso si sia allarmato, quando lo hanno fermato col pretesto del controllo etilico per “carpirgli” il Dna sul boccaglio della stradale.

Una cosa è certa (almeno per il momento e a quanto si legge nelle carte). Ed è che nella parte interna degli slip di Yara c’è una traccia, con ogni probabilità sangue, che “fotografa” la presenza sulla scena del delitto, a contatto con la vittima, di Massimo Giuseppe Bossetti. Ma quanti altri “inconfutabili” test del Dna si sono rivelati poi inattendibili, discutibili, contestabili, irrilevanti, infine inutilizzati? Basti ricordare i casi di Via Poma, Cogne, Garlasco e Meredith.

Tutti ci auguriamo che sia stato trovato l’assassino di Yara, anche per la giustizia che va resa alla famiglia Gambirasio che nel corso degli anni, e in particolare negli ultimi difficili giorni, ha mantenuto un comportamento straordinariamente dignitoso e prudente. E certo il test del Dna, se reggerà alle perizie di parte e sarà confermato nel processo, sarà un elemento forte, forse schiacciante, a sostegno dell’accusa. Ma il processo mediatico, lo stillicidio di sospetti avvalorati da dettagli “parziali” e selezionati dati in pasto ai media, il meccanismo perverso del telefono senza fili tra inquirenti e cronisti di giudiziaria in una vicenda che vede coinvolte (e stravolge) la vita di tre famiglie e tanti innocenti (anche minori), è uno spettacolo che non mi piace.

È uno spettacolo. Come, confesso, trovo agghiacciante la pubblicazione su “Repubblica” della foto dei leggins anneriti e strappati di Yara. Ce n’era proprio bisogno?     

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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