Se il giudice rinvia a giudizio... ma non sa perché
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Se il giudice rinvia a giudizio... ma non sa perché

Nel rinvio a giudizio degli imputati per la presunta trattativa Stato-mafia, nel marzo 2013, il giudice Morosini certificava: «Il mio non è un giudizio su attendibilità, coerenza e inquadramento giuridico del reato». E allora che ci sta a fare?

Avanza stancamente il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, basato sulle indagini condotte dall'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Se non fosse per un articolo pubblicato sul Fatto quotidiano di oggi, venerdì 21 febbraio, da Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino e azionista del giornale: dove Tinti, da giurista onesto, sottolinea un particolare fin qui sottaciuto.

Quando il 7 marzo 2013 il giudice dell'udienza preliminare Piergiorgio Morosini decise a favore del rinvio a giudizio degli imputati, uomini dello Stato e mafiosi, accusati di «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario» (art. 338 codice penale), ecco che cosa scrisse il magistrato nella sua premessa per l'avvio del procedimento: «L'esposizione (cioé lo scritto che segue, l'atto del rinvio a giudizio, ndr) non intende programmaticamente esplicitare giudizi di attendibilità, coerenza, logicità e collegamento sulle fonti, né argomentare sull'inquadramento giuridico delle condotte».

Tradotto dal giuridichese: quel 7 marzo il giudice Morosini decide di mandare a processo 10 imputati (i tre boss Leoluca Bagarella, Totò Riina e Antonino Cinà; il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca; l’ex ministro democristiano Calogero Mannino; l'ex senatore senatore del Pdl Marcello Dell’Utri; l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino; e tre alti ufficiali dei carabinieri: i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno) ma dice chiaramente di non intendere dare all'inchiesta patenti di attendibilità, coerenza logica, attendibilità delle fonti. 

Viene da domandarsi che cosa ci stia a fare un giudice per l'udienza preliminare: perché è esattamente quello l'ambito del suo lavoro. Ovversossia districarsi fra le prove presentate, stabilirne una qualche logicità e attendibilità. E alla fine decidere se bastino per mandare l'imputato (in questo caso gli imputati) sotto processo. Poi altri giudici decideranno se bastano o meno a una condanna. Ma il giudice Morosini nel suo scritto va oltre; aggiunge perfino di non volersi esprimere sulla qualificazione del reato, ipotizzata dalla Procura di Palermo: quella dell'attentato-minaccia a un corpo politico dello Stato. 

Lo stesso Tinti, allontanandosi non poco dalla campagna condotta dal Fatto quotidiano, da sempre schierato a garanzia delle certezze di Ingroia, scrive che la premessa di Morosini «è in parte equivoca e in parte giuridicamente errata». Spiega Tinti: «Le fonti sono le prove, e non si capisce come si possa stabilire se un imputato deve essere processato senza valutare "attendibilità, coerenza, logicità delle prove"». Poi Tinti aggiunge: «Morosini deve averle ritenute attendibili, coerenti e logiche (le prove, ndr), altrimenti il rinvio a giudizio sarebbe davvero privo di senso. Ma privo di senso restaperché, coerentemente con la premessa, Morosini non ha detto nulla sulla qualificazione giuridica dei fatti», cioè sul reato da contestare agli imputati.

Non è un colpo da poco, al processo palermitano. Perché con questo articolo Tinti ha in qualche modo autorevolmente affiancato la sua critica a quella appena espressa dal giurista (di sinistra) Giovanni Fiandaca e dallo storico (di sinistra) Salvatore Lupo nel libro «La mafia non ha vinto, il labirinto della trattativa» (Laterza, 154 pagine, 12 euro). Nel libro, Fiandaca critica alla radice la qualificazione giuridica dell'ipotesi di reato, l'art. 338: lo ritiene non pertinente ai fatti, che a suo modo di vedere riguardano esclusivamente scelte politiche pienamente discrezionali. E legittime.

Bruno Tinti, nel finale del suo articolo, assimila il giudice a Ponzio Pilato. Ha fondamentalmente qualche ragione, perché la Cassazione ha sentenziato che in ogni decreto di rinvio giudizio sia «indispensabile» che i fatti accertati dal Pm vengano inquadrati in precisi articoli di legge. Per questo la scelta di Morosini di non voler argomentare sull'inquadramento giuridico delle condotte degli imputati, aggiunge Tinti, è «insensata». È come se il giudice palermitano avesse scritto: sì, probabilmente la trattativa ci fu, ma non so dire se sia illegittima. 

Ma allora viene da chiedersi: il rinvio a giudizio su quale base è stato concesso? E che cosa ci sta a fare in un tribunale un giudice per l'udienza preliminare?

Certo, alla luce del «giudizio pilatesco» di Morosini, viene da sorridere rileggendo le parole che il giorno stesso del rinvio a giudizio aveva pronunciato Ingroia: «Sono molto soddisfatto dell’esito dell’udienza preliminare che conferma integralmente l’impostazione che io e il pool da me coordinato avevamo ricostruito nel corso di questi lunghi anni di indagine. Finalmente questa decisione di un giudice terzo, di grande competenza e autorevolezza pone la parola fine a tutte le maldicenzee accuse infamanti piovute addosso ai pm della procura di Palermo senza che noi potessimo replicare».

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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