Del Turco: una gogna che dura da cinque anni
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Del Turco: una gogna che dura da cinque anni

La condanna a 9 anni e 9 mesi dell'ex governatore abruzzese sulla base di un processo indiziario

 Ottaviano Del Turco è stato condannato in primo grado a 9 anni e 9 mesi nel processo sulla «sanitopoli» abruzzese. Al caso dell'ex governatore è stato dedicato il capitolo di un libro - La Gogna - uscito nel 2011, a firma di Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama, che descriveva la contiguità tra procura e sistema dei mass media proponendo seri dubbi sulla fondatezza delle accuse. Ve lo riproponiamo integralmente. 

Quando Ottaviano Del Turco viene arrestato, all’alba del 14 luglio 2008, e subito dopo viene rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Sulmona, il commento più tempestivo e severo sull’ordine di custodia cautelare viene da un avversario politico di prim’ordine: «È il solito teorema dei giudici. Serve una riforma radicale della giustizia», dichiara Silvio Berlusconi.

A difendere il governatore della Regione Abruzzo, accusato con altri otto politici e funzionari regionali di associazione per delinquere, concussione e truffa, il presidente del Consiglio è però quasi del tutto isolato. Berlusconi parla a metà della mattina da Parigi, dov’è appena arrivato per prendere parte alle celebrazioni del 14 luglio francese, prima di un incontro con Nicolas Sarkozy e con una quarantina di capi di Stato e di governo: «Mi sembra una cosa molto strana» aggiunge, severo. «Ho sentito tutto, sono informato; però è strano che ci sia stata una decapitazione completa, quasi la retata di un intero governo regionale».

Quel giorno, nel Partito democratico di cui Del Turco fa parte così come tra i sindacalisti di quella Cgil di cui è stato a lungo segretario generale aggiunto, nessuno prende posizione a suo favore con altrettanta forza. A dire il vero, anche mentre i telegiornali delle tredici annuciano i dieci arresti abruzzesi e parlano di un «terremoto istituzionale», nel Pd e nella Cgil nessuno apre bocca. Come se lo choc avesse annichilito ogni capacità di reazione. Gli unici a dire qualcosa sono gli ex compagni di Del Turco nel disciolto Partito socialista, che con la diaspora seguita alla fine della Prima Repubblica si sono ecumenicamente suddivisi tra centrodestra e centrosinistra. Ma tra i secondi Soltanto Giuliano Amato lo fa, e di certo non usa toni appassionati, o indignati: «Conosco Ottaviano da moltissimi anni. E proprio non riesco a trovare credibile un’accusa del genere nei confronti di una persona come lui». Ecco tutto quel che riesce a dire. Bisogna aspettare il tardo pomeriggio perché arrivi una nota della segreteria del Pd. È Walter Veltroni, finalmente, a rompere il silenzio. Ma usa comunque parole che esprimono tutto l’imbarazzo del partito. Il leader del Pd testimonia «vicinanza umana», esprime «stupore e amarezza», si augura che Del Turco «sappia dimostrare la sua totale estraneità ai fatti», lo considera «innocente fino all’ultimo grado di giudizio». Ma, soprattutto, ribadisce «piena fiducia nella magistratura».

Nello stesso momento arriva la risposta piccata dell’Associazione nazionale dei magistrati alle dichiarazioni di Berlusconi: «Ci denigrano e gettano soltanto discredito sulle istituzioni giudiziarie», sostiene un comunicato, dove si aggiunge che quelle del premier sono critiche «non fondate sulla conoscenza degli atti». In realtà non serve proprio leggere gli atti per sapere di che cosa siano accusati Del Turco e gli altri arrestati, cioè due assessori regionali, il capogruppo del Partito democratico, un ex assessore di Forza Italia, più una serie d’imprenditori e di manager abruzzesi. Il procuratore di Pescara, Nicola Trifuoggi, ha convocato addirittura una conferenza stampa per raccontare, per spiegare e in definitiva anche per vantare i risultati dell’inchiesta. L’incontro con i giornalisti è affollato, lungo ed esaustivo. Molti telegiornali ne trasmettono gli stralci più significativi. Viene perfino trasmesso in versione integrale su Rete8, una televisione locale. «Gli indagati sono schiacciati da una valanga di prove» dichiarano gli inquirenti, schierati dietro una grande scrivania. Sembrano decisamente soddisfatti della tempestività del loro intervento: «Li abbiamo fermati mentre stavano distruggendo la sanità regionale».

Non è la prima volta che accade un «terremoto istituzionale», nella recente storia abruzzese. Già nella Prima Repubblica una grande «retata», per usare lo stesso termine adottato da Berlusconi, aveva decapitato un’intera giunta regionale, allora guidata da democristiani e liberali. Era accaduto il 29 settembre 1992: i cineoperatori dei telegiornali avevano indugiato a lungo sui lampeggianti blu della polizia, che una sera aveva circondato gli uffici della Regione per portare in prigione una decina di politici accusati di corruzione. Era stato uno dei momenti clou nella prima parte di Tangentopoli, forse l’attimo nel quale la mano della giustizia aveva colpito più duramente sulla politica locale, prima di dedicarsi ai più impegnativi leader romani della Democrazia cristiana e del Partito socialista. La vicenda abruzzese era stata poi superata allegramente dall’incalzare delle cronache di Mani Pulite, che avevano visto ben altri arresti e ben altre accuse. E anche dal punto di vista giudiziario era poi finita nel nulla, perché con una sentenza arrivata nel giugno 1997 la corte di Cassazione aveva prosciolto tutti gli indagati per «assoluta carenza d’indizi di colpevolezza».

Il 15 luglio 2008, come nulla fosse accaduto sedici anni prima, la nuova «retata abruzzese» è sulle prime pagine di tutti i quotidiani. E anche grazie ai dettagli diffusi dai magistrati nell’affollatissima conferenza stampa, negli articoli i particolari si sprecano. Del resto, il gioco è abbastanza facile per i cronisti. Nelle 442 pagine dell’accusa, come sempre disponibili in tempo reale nelle redazioni, si parla di tutto: di politici arroganti e corrotti; di una sanità regionale trasformata in banchetto; di valigie piene di soldi; d’incarichi e di milioni spartiti a tavola. Ci sono interrogatori, verbali, intercettazioni...

Il Corriere della seratitola in prima pagina a cinque colonne «Tangenti, arrestato del Turco». Ma è l’occhiello ad assumere un ruolo da protagonista: «Sanità in Abruzzo. L’accusa: mazzette per sei milioni, prove schiaccianti». Poco più in basso, la tradizionale vignetta di Emilio Giannelli è più crudele del solito: si vede un tavolo operatorio con un chirurgo che estrae grosse mazzette di banconote dal paziente e le passa alla mano di un personaggio in grigio, ritratto solo in parte all’estremo destro del disegno.

All’interno del giornale, ben quattro sono le pagine dedicate al caso e alle «prove schiaccianti» messe in campo dalla procura. Dino Martirano, inviato a Pescara, spiega che all’origine degli arresti sono le confessioni di «un grande corruttore trasformatosi in gola profonda della procura di Pescara: il re delle cliniche Vincenzo Angelini». Del Turco, ha raccontato Angelini agli inquirenti, avrebbe ottenuto ricchissime tangenti. Scrive Martirano: «I soldi al governatore, 5 milioni e 800 mila euro pagati a rate fino al febbraio del 2008, li portava il re delle cliniche. Ed è un tipo accorto, questo Angelini, perché infilava sempre nel taschino un registratore digitale sul quale incideva i colloqui con Del Turco e con il suo entourage».

Secondo le cronache, Angelini avrebbe registrato e fotografato ogni incontro; e nella sua foga da neofita delle investigazioni avrebbe addirittura schedato ogni dato utile a «incastrare» i presunti corrotti, compresi i tabulati del Telepass con gli orari delle uscite e degli ingressi della sua auto al casello di Pescina nei viaggi che lo portavano a Collelongo, il paese di campagna vicino all’Aquila dove Del Turco ha la casa. Aggiunge Martirano: «Passato in pochi mesi dal ruolo del grande corruttore a quello della gola profonda, Angelini ha dunque rivoltato il tavolo facendo nomi e cognomi (...). Ha raccontato che, dopo aver pagato la bellezza di 15 milioni di tangenti, non gli era stato permesso di rientrare di tutto il credito vantato con la Regione: 150 milioni di euro maturati tra il 2005 e il 2007».

Quindi è tutto chiaro, e la confessione di Angelini per il procuratore Trifuoggi è «credibile in quanto è una vendetta», più che giustificata dalla situazione in cui era stato costretto suo malgrado l’imprenditore. Anche il giudice Maria Michela Di Fine, che ha dato il via libera agli arresti, ne è convinta: di Angelini, scrive nelle carte che hanno aperto le porte del carcere ai nove indagati, «va apprezzata in senso positivo la valenza pregiudizievole delle dichiarazioni accusatorie rese verso se stesso e il gruppo imprenditoriale che gli appartiene».

Gli altri indagati, negli articoli, scivolano tutti in secondo piano. Sopra tutti, anche nelle fotografie che occupano ampie porzioni di pagina, giganteggia Ottaviano Del Turco. Nella terza pagina delCorriere, un articolo di Paolo Franchi lo ritrae accuratamente, a metà strada tra vita pubblica e privata. Franchi ripercorre un cursus honorum più che significativo: Del Turco è stato il numero due socialista  della Cgil negli anni Ottanta, ai tempi di Luciano Lama; è stato poi l’ultimo segretario del Psi nel disastro di Tangentopoli, dopo l’abbandono di Bettino Craxi costretto all’esilio in Tunisia dalle indagini e dagli ordini di cattura. Nella Seconda Repubblica, Del Turco è stato eletto deputato dellUlivo e nominato presidente della Commissione parlamentare antimafia; quindi è diventato ministro delle Finanze nel secondo governo Amato e ancora parlamentare europeo. Infine, «e mal gliene ha incolto» come sottolinea Franchi, è tornato nel suo Abruzzo da presidente della Regione per il Pd. Scrive il giornalista: «Una carriera così, passando indenne e anzi avanzando in mezzo a tante bufere, significa anche mediazioni d’incerto profilo, compromessi non sempre commendevoli, magari pure una certa quantità di pelo sullo stomaco. Mai pensato che fosse una mammoletta, Del Turco; mai creduto che della sua immagine si potesse fare un santino».

Parole che suonano quasi come una presa di distanza. Ma subito il giornalista aggiunge altri particolari, assai diversi dai precedenti. A partire da quanto era accaduto nel congresso del Psi a Rimini, anno 1987, nel pieno dell’era craxiana: «Del Turco fu il primo socialista di peso a conquistare i titoli dei giornali denunciando l’esistenza, nel partito, di una questione morale che non era possibile liquidare soltanto come odiosa propaganda nemica (...). E che il personaggio fosse diverso, e parecchio, dal cliché a torto o a ragione incollato addosso al socialista cosiddetto rampante, questo lo riconoscevano un po’ tutti, avversari compresi». Il ritratto prosegue: «Ai funerali di Enrico Berlinguer, di fronte a una folla sterminata e a dir poco ostile nei confronti di Craxi e del suo partito, fu Del Turco il solo socialista a parlare. Ascoltato con attenzione e rispetto. E anche applaudito». Ricordi controversi, quindi, che «sono tornati alla memoria non soltanto di chi scrive» conclude il giornalista «ma di un sacco di gente. Lasciandola amaramente stupita, o per meglio dire incredula, di fronte a quello che stava capitando».

Anche La Repubblica del 15 luglio è combattuta, e lo si nota bene, tra il desiderio di sostenere il lavoro di magistrati e inquirenti, e la preoccupazione che nell’opinione pubblica possa passare l’idea che la corruzione è un male comune alla destra come alla sinistra. Di sicuro c’è diffidenza nei confronti dell’ex socialista Del Turco. Forse è per questo che il quotidiano dà uno spazio anomalo ad Antonio Di Pietro. Il leader dell’Italia dei valori parla già nello strillo di prima pagina, sotto a un titolo che riempie tutta la parte alta del giornale: «È il ritorno di Tangentopoli» sostiene l’ex magistrato. Che a pagina quattro ottiene la visibilità di un sommario e una lunga citazione: «Sì, è tornata Tangentopoli» sentenzia Di Pietro. «La differenza è che allora chi veniva coinvolto si vergognava e si dimetteva, e che purtroppo non è tornata Mani Pulite: troppo difficile con un Parlamento come questo».

A pagina tre, l’inviato Carlo Bonini descrive alcune delle pratiche adottate da Angelini per incastrare il «governatore corrotto»: «Era un mercoledì, il 31 ottobre 2007» scrive Bonini «e Angelini chiese alla filiale della Banca di Roma su cui erano appoggiati i conti delle sue cliniche di predisporre un prelievo in contante per duecentomila euro in banconote di grosso taglio: quattro fascette da cinquantamila euro l’una, in biglietti da cinquecento. Ritirò il denaro chiedendo la stampa di una contabile e di un estratto conto, che conservò con cura. Una volta nel suo ufficio, dispose le quattro mattonelle di bigliettoni in buon ordine; con una macchina digitale ne fotografò i numeri di serie (...) e scattò un’istantanea al sacchetto di carta da shoping sul cui fondo il denaro era stato pigiato». Quarantotto ore dopo, il 2 novembre, Angelini sale sulla sua Audi con l’autista, gli dice di dirigere l’auto a Collelongo e gli spiega che cosa dovrà fare: «Avrebbe dovuto fotografarlo mentre, a piedi, varcava la soglia della casa di Del Turco. Quindi, fotografarlo ancora quando ne fosse uscito».

Bonini dà quindi conto delle «prove» fotografiche della dichiarata concussione, prodotte da Angelini ed entrate nell’ordine di custodia cautelare. Come se le vedesse: «Nelle foto, il grande elemosiniere è sull’uscio della casa di Collelongo. Stringe nella mano destra il sacchetto di carta con il contante». L’incontro con il presidente, nella testimonianza, dura pochi minuti. A parlare è sempre Angelini: «Misi come avevo fatto altre volte il denaro sulla libreria del salone, riuscendo a sfilarlo dalle fascette, che conservai come prova (...) Quindi il presidente mi congedò». Ricorda l’imprenditore: «Del Turco mi chiese se fossi venuto da solo, e quando gli dissi che mi aveva accompagnato il mio autista si preoccupò del fatto che avrebbe notato che il sacchetto con cui ero entrato in casa era vuoto. Per questo, vi infilò dentro quattro mele». «Delle mele» aggiunge Bonini «ha un ricordo vivo anche l’autista di Angelini. E le mele, il loro “costo nominale di 50 mila euro l’una”, diventano metafora della qualità della corruzione, dei suoi modi, anche nella stigmatizzazione sarcastica che ne dà il procuratore capo Trifuoggi nella richiesta di custodia cautelare».

Descrizione efficace e suggestiva. Nessuno, però, solleva il più piccolo dubbio sulla preparazione alla denuncia operata da Angelini, meticolosa ma a dire il vero un po’ sospetta; né sul fatto che nel sacchetto di carta che ha introdotto in casa Del Turco l’imprenditore avrebbe potuto mettere qualunque cosa. Perché nel sacchetto, in effetti, avrebbe potuto esserci il denaro di cui parla Angelini, ma anche tutt’altro. E nessuno chiede perché mai il concusso non abbia presentato ai magistrati le registrazioni audio di quello scambio, e di tutti gli scambi successivamente avvenuti con Del Turco. Insomma, non esiste una prova certa che tutta l’accurata preparazione fotografica per documentare la consegna della mazzetta sia stata sincera fino all’ultimo, o che sia servita a predisporre una trappola. Ma nessuno pare accorgersene.

Nulla si sa, intanto, anche sui conti di Del Turco: sono stati sottoposti a verifica da parte della procura? Gli inquirenti hanno trovato qualche traccia dei passaggi di denaro? Non c’è alcuna risposta, nell’articolo. Né si spiega perché mai abbia improvvisamente deciso di parlare il «re delle cliniche», che pure si accusa di avere corrotto pubblici ufficiali, e non si capisce nemmeno perché non sia finito a sua volta agli arresti. È evidente che Angelini, piuttosto che come corruttore, cerca di passare per concusso: cioè come vittima dei politici regionali e di poteri più forti di lui. La sua parte di verità, comunque stiano le cose, diventa subito verità assoluta per tutti. E questa verità incastra Del Turco, lo infilza ingloriosamente alla gogna.

Per il governatore spodestato, però, l’articolo forse più inclemente del giorno successivo all’arresto è quello che sulla Repubblica scrive Jenner Meletti. Il giornalista è andato a Collelongo, e qui ha intervistato i parenti e i vicini di Del Turco. Ne esce quasi un mesto (e ironico) de profundis: «Le signore Tullia De Caris e Ida De Paolis, che stanno davanti alla casa del presidente, dicono tutto il bene possibile dell’uomo portato via dai finanzieri. Ma ne parlano al passato, come fosse morto. «Era bravo, Ottaviano, era buono. Era tanto povero, l’ultimo di otto figli, ma era riuscito a studiare fino alla terza media». Ecco, Del Turco è in una cella da meno di ventiquattro ore e viene già metaforicamente dato per defunto. Mentre nella medesima pagina una vignetta al curaro di Ellekappa spiega con tutta la malevolenza possibile l’anomalia della solidarietà manifestata da Berlusconi all’arrestato: «Truffa, corruzione e concussione» spiega ironica una delle due comari che spesso compaiono nei disegni di Ellekappa «sono reati che affratellano». I giornali hanno tutti deciso. E la sentenza è già scritta.

Anche l’indomani, il 16 luglio, su nessun quotidiano si pone la questione del carcere né si chiede se un’altra misura cautelare, per esempio gli arresti domiciliari, avrebbe potuto essere più utilmente adottata per gli indagati. Soltanto sulle agenzie di stampa resta la traccia della «vibrata protesta» del leader radicale Marco Pannella, che giudica «esagerato» l’isolamento del governatore: soprattutto in un carcere come quello di Sulmona, dove troppo spesso negli ultimi anni è accaduto che i detenuti si uccidessero in condizioni misteriose.

Ma nessun quotidiano dà voce a Pannella: del resto, si sa, la carcerazione preventiva è un delle più apprezzate glorie nazionali. In compenso,La Repubblicadedica due pagine alle condizioni Del Turco in cella. Il recluso è costretto in uno spazio di tre metri quadrati, nella sezione «media sicurezza», dove abitualmente si trovano mafiosi e camorristi. La situazione non dev’essere invidiabile, per un ex presidente della Commissione antimafia, ma nessuno sottolinea il particolare. Va a trovarlo Pierluigi Mantini, deputato del Pd in commissione Giustizia. All’uscita, il parlamentare racconta al giornalista Giuseppe Caporale di avere trovato un Del Turco ben lontano dalla disperazione del carcerato. Il governatore, anzi, è «fiducioso, quasi ironico», scrive Caporale. «Fai bene, Pierluigi, a visitare le carcere abruzzesi per verificare la condizione dei detenuti, ha esordito Del Turco vedendo arrivare Mantini. E gli ha spiegato: l’ho fatto anch’io quando ero deputato, ed ero venuto proprio qui. Questa è una comunità che non va dimenticata...».

Intanto la questione dei soldi di Angelini continua a tenere banco. E finalmente pare che qualcuno cominci a domandarsi dove diavolo siano andati a finire quei milioni. A pagina undici della Repubblica, Bonini scrive: «Racconta il grande elemosiniere Angelini che furono diciannove le volte in cui si chinò “a baciare la pantofola” del presidente Del Turco. Racconta che per diciannove volte pacchetti da 10 a 750 mila euro passarono dalle sue mani allo scaffale di una libreria, al tavolo di una pasticceria, al ripostiglio di una cucina. Quasi sei milioni, si è detto. Ma dove sono finiti questi denari? Detta altrimenti: quali sono i riscontri? E le fonti di prova?».

Un soprassalto di garantismo? Macché. Del resto, basta leggere il titolo dell’articolo per capire dove vuole andare a parareLa Repubblica: «Ecco i movimenti sospetti: mazzette da dieci a 750 mila euro. Tre case a Roma e soldi alla compagna: così Del Turco riciclò 19 tangenti». Nel testo, qualche riga più in basso, Bonini la prende alla larga: «Scrive il giudice Michela Di Fine a pagina 317 dell’ordinanza: “Le indagini non hanno sin qui evidenziato situazioni atte a riscontrare incassi diretti di denaro contante in conseguenza delle dazioni effettuate da Angelini. Ma tale circostanza non è assolutamente idonea a inficiare l’ipotesi accusatoria. Apparendo evidente come la prova della destinazione delle somme di persone operanti nel settore istituzionale non è agevole, potendo esse contare su rapporti personali che certamente consentono la gestione del denaro anche per interposta persona”».

Insomma, contro il governatore ci sono solamente sospetti. Però fondati: parola di giudice. Ma davvero non c’è un vera elemento concreto, contro Del Turco, la cosiddetta «pistola fumante»? «In realtà qualcosa c’è» scrive Bonini. E introduce le «prove» della procura: «Operazioni di acquisti immobiliari non del tutto trasparenti». Si tratta di due appartamenti, che il governatore avrebbe «verosimilmente acquistato» a Roma tra 2006 e 2007 per un totale di circa 840 mila euro, e di una «misteriosa abitazione, sempre acquistata in Roma, cui ha fatto riferimento non solo Angelini, ma anche qualche conversazione telefonica intercettata dello stesso Del Turco».

Una «misteriosa abitazione»? Insomma: le case acquistate con i soldi della corruzione sono due, oppure sono tre? E c’è la certezza che il denaro impiegato per le compravendite provenga dalle tangenti di Angelini? Possibile che gli inquirenti non siano in grado di mettere in campo risultati meno incerti, confusi? La descrizione degli elementi probatori sembra insufficiente. Ma lo stesso identico copione compare quello stesso 16 luglio sulCorriere, che a pagina cinque titola: «Del Turco, tangenti più care per fargli comprare la casa a Roma». Alessandra Arachi e Dino Martirano, i due inviati del giornale a Pescara, raccontano che «il giudice, con linguaggio perentorio, traccia del governatore un “profilo delinquenziale non comune che lascia ritenere pressoché certa, indipendentemente da dimissioni da incarichi pubblici, la reiterazione dei medesimi reati per i quali si procede”».

E la terza «misteriosa abitazione» di Roma? Ecco tutto quel che ne raccontano i due cronisti: «Nel dicembre del 2007 proseguono le richieste di denaro ad Angelini: “Accompagnate da riferimenti alle sempre maggiori difficoltà ad aiutare le sue cliniche nonché in relazione alle esigenze personali di Del Turco, impegnato nell’acquisto di una casa a Roma, e per questo vengono incrementati in maniera decisiva gli importi. Angelini consegnava a Del Turco 250 mila euro (...)».

Va detto anche che, fino questo momento, sui giornali alla difesa non è stato concesso nemmeno un lamento. Come se il governatore non avesse alcun diritto di replicare alle accuse. Del resto, il detenuto è sempre nel carcere di Sulmona in regime d’isolamento, e per i primi tre giorni subisce addirittura il divieto d’incontrare il suo avvocato. È in questa solitudine totale che il 17 luglio Del Turco prende la decisione di dimettersi dalla presidenza della Regione. SulCorriere, il 18, l’inviato Martirano gli attribuisce queste dichiarazioni: «L’ex governatore sostiene che la procura può fare pure le pulci ai suoi conti bancari perché lui è stato messo in mezzo in questa storia di tangenti e sanità solo perché era fortemente determinato a tagliare il budget delle cliniche private per risanare il bilancio della Regione. Poi, per respingere l’accusa di arricchimento personale, aggiunge: “Quando ero parlamentare europeo avevo anche un certo reddito (...). Chiedo che siano esaminati i miei conti e tutto quello che ho fatto dal 2005”».

Compare per la prima volta in questo paragrafetto delCorrierela tesi difensiva più credibile: secondo Del Turco, Angelini ha agito sì per vendetta. Ma non perché vessato dalle continue richieste di tangenti, bensì perché danneggiato in prima persona dalle politiche regionali di contenimento della spesa sanitaria, fortemente volute dalla nuova giunta Del Turco. E sempre sulCorrieredel 18 luglio, a pagina undici, si dà conto per la prima volta (sia pure con qualche ambiguità) che lo stesso Angelini nella primavera del 2008, quindi poco prima di vuotare il sacco sulla Tangentopoli sanitaria abruzzese, temeva di finire nei guai giudiziari a causa soprattutto di alcuni esposti presentati contro di lui dal concorrente Luigi Pierangeli, imprenditore sanitario e presidente dell’Associazione delle cliniche abruzzesi. A rivelarlo è il giornalista Giuseppe Guastella, che trascrive il dialogo tra Angelini e i pubblici ministeri nel primo interrogatorio del 6 maggio 2008. Ecco le frasi più interessanti: «Io mi sono messo sotto la vostra protezione», dice Angelini al procuratore Trifuoggi e ai suoi due sostituti Giuseppe Bellelli e Giampiero Di Florio. E già il termine «protezione» potrebbe avere un significato ambiguo. Ma non basta.

Di Florio domanda: «Perché non è venuto prima da noi?».

Angelini risponde: «Perché mi dicevano che eravate i miei nemici, ve lo sto dicendo, è tutto il giorno che ve lo dico (...). Il consigliere regionale Camillo Cesarone (il capogruppo del Pd che è uno dei politici arrestati,ndr) mi disse che erano arrivati al potere e che per loro era molto difficile difendermi perché io presentavo un sacco di problemi, braccato com’ero da procura, Guardia di finanza, Carabinieri dei Nas e quant’altro; che loro solamente potevano aiutarmi perché anche il resto della politica era in gran parte contro di me, che mi volevano rompere le gambe».

A questo punto, è ipotizzabile quindi che Angelini abbia fatto la doppia mossa di presentarsi in procura e di confessare soltanto per giocare d’anticipo e per anticipare il ciclone giudiziario che stava per travolgerlo. E viene inevitabilmente da chiedersi quale grado di libertà e di credibilità possa avere un testimone in queste condizioni, ambiguamente a cavallo tra i debiti, la corruzione e la concussione.

In effetti, il giorno dopo Bonini sullaRepubblicatraccia un profilo di Angelini che non è propriamente encomiastico. Due sono le possibili letture del «grande elemosiniere» abruzzese, così lo chiama il giornalista: «È un bugiardo, un maligno e astuto mistificatore, che ha covato in silenzio una sapiente e artefatta vendetta, come dicono gli uomini che sono in carcere schiacciati dalle sue accuse. Oppure un “chiamante in correità soggettivamente attendibile” come scrive il giudice Michela Di Fine “che si risolve a raccontare delle pressioni e minacce degli amministratori pubblici, delle dazioni di denaro che gli ha corrisposto, con una scelta sofferta, spontaneamente maturata”».

Sospeso tra i due ritratti, Bonini non sceglie direttamente. Racconta altro. Racconta l’ossessione di Angelini per telecamere, cimici, registrazioni nascoste. Ricorda che l’imprenditore ne ha già fatto un ampio uso in passato contro i sindacalisti delle sue cliniche, la Villa Pini di Pescara e la Sanatrix di Chieti. Ma poi il giornalista sottolinea che Angelini «con Del Turco lo fa solo in parte, lasciando improvvisamente e curiosamente bui (nessuna registrazione, nessun video) i momenti chiave delle dazioni milionarie cui sarebbe stato costretto».

Non è un’obiezione da poco. È anzi una sorpresa, perché fin qui si è dato per certo che ogni corruttela fosse stata diligentemente documentata con registrazioni, filmati, fotografie. Quasi fosse un contagio, quello stesso giorno anche Martirano, del Corriere, scopre gli stessi dubbi: «Qualcosa sfugge perché il re delle cliniche private ha registrato tutto quello che c’era da catalogare per provare la concussione: tutto, appunto, tranne il momento in cui lui stesso avrebbe consegnato le mazzette a Del Turco e agli altri protagonisti dello scandalo (...). Ma Angelini confonde anche date e luoghi (...). E ancora, i famosi tabulati del Telepass (prova non solidissima dei viaggi a Collelongo) valgono sì e no per un paio delle diciannove tangenti che lui dice di aver dato a Del Turco: “A volte andavo con la mia macchina, pagavo io al casello”».

Già, i Telepass. Nella denuncia di Angelini, i tabulati dei suoi passaggi al casello autostradale servirebbero per dimostrare gli orari esatti dei suoi viaggi per portare le mazzette a Collelongo. Ma questa prova è la prima a essere smontata dalla difesa, e proprio sulla base degli orari indicati da Angelini. Perché ci sono 20-25 chilometri dal casello alla casa di Del Turco, e ogni volta Angelini impiega troppo poco tempo ad andare e tornare.

Mentre qualche dubbio si affaccia negli articoli di giornale, ma non riesce mai ad arrivare all’altezza di un titolo, o almeno di un sommario, è soltanto sui quotidiani del 22 luglio, otto giorni esatti dopo l’arresto del governatore, che il Pd comincia a dare i primi, timidi segni d’insofferenza per una carcerazione preventiva che ormai dura da una settimana. Certo, non sono prese di posizione durissime. SullaRepubblica, una fonte anonima della segreteria del partito afferma che «non si vedono riscontri alle parole dell’accusatore», mentre l’ex segretario dei Democratici di sinistra, Piero Fassino, si dice convinto dell’innocenza di Del Turco. Intanto, al recluso, viene confermato il severo divieto di tenere in cella qualche libro e i pennelli per la pittura, il suo hobby. Il 23 luglio Lanfranco Tenaglia, ex magistrato e ministro ombra della Giustizia per il Pd, chiede inutilmente sulCorriereche la custodia cautelare gli venga almeno attenuata, passando agli arresti domiciliari.

Potrebbe essere il momento per scavare nell’inchiesta e nelle sua apparenti contraddizioni. E invece a questo punto, per un po’ di giorni, il caso Del Turco scompare dai quotidiani. L’attenzione improvvisamente si attenua. Del resto, è inevitabile visto che on accade quasi nulla. Il 4 agosto ilCorrieredà la notizia (ma la pubblica solamente a pagina dieci) che si sta avvicinando la camera di consiglio che dovrà decidere sull’istanza di libertà avanzata dagli avvocati del recluso. L’8 agosto, un venerdì, l’ex governatore ottiene dalla procura il via libera agli arresti domiciliari. Ma, ironia del destino, il giudice che deve pronunciarsi è in vacanza fino al lunedì successivo. Il giornale insinua che quello che ha convinto i pm a chiedere l’attenuazione delle misure cautelari è il fatto che dalla sua cella, in realtà, il governatore avrebbe potuto comunicare più agevolmente con gli altri indagati allo scopo di concordare una difesa comune. Mentre un altro elemento a favore della decisione, a quel punto, è che ormai «tutte le persone coinvolte nello scandalo hanno dato le dimissioni dai loro incarichi». Ma questo, per Del Turco, è vero dal 17 luglio: e sono trascorsi quasi venti giorni. L’11 agosto, comunque, viene finalmente scarcerato e può tornare nella sua casa di Collelongo.

Sembra un buon momento per l’indagato. SulCorrieredel 12 agosto viene intervistato Giuliano Cazzola, ex segretario confederale socialista della Cgil, quindi un ex «collega» di Del Turco, che poi è stato eletto deputato nelle file del centrodestra. Cazzola si dichiara innocentista convinto perché, dice, «conosco l’uomo e sono pronto a metterci la mano sul fuoco». Poi aggiunge, tra lo stupito e l’indignato: «Io ho parlato a suo favore ben due volte alla Camera: non ho ricevuto nemmeno un applauso dai banchi del centrosinistra».

In effetti i vertici del Pd continuano a tacere sulla «Sanitopoli» abruzzese. Rompe il silenzio soltanto qualche voce, sempre molto isolata. Quel giorno lo fa Emanuele Macaluso, rappresentante della sinistra riformista: «Anche in questo caso» dichiara alCorriere«il carcere preventivo è stato usato come strumento per estorcere una confessione, quasi come una tortura: è una cosa inaccettabile».

Il garantismo, però, non riesce a prevalere. Per Del Turco la lettura dei quotidiani è una doccia scozzese. Sempre il 12 agosto, mentre il detenuto è ormai a casa da poche ore, la Repubblica saluta l’avvenimento con questo titolo: «Del Turco scarcerato. Ma nasconde i soldi». Nel testo, Giuseppe Caporale spiega i timori degli inquirenti: «Il giudice teme che Del Turco e gli altri nove imputati possano nascondere ancora i soldi delle tangenti». Si capisce meglio l’indomani che cosa questo significhi. Il Corriere rivela che, contro l’indagato, la procura schiera un «superteste». La nuova accusa è riassunta in un titolo-choc, che occupa una pagina intera delle cronache: «So dove Del Turco ha nascosto i soldi». Scrive la giornalista Giusi Fasano: «Questo supertestimone avrebbe raccontato ai magistrati di aver raccolto i dati (...) da una persona a sua volta in contatto con un professionista molto vicino a Del Turco».

Sembra un colpo ben assestato, forse potrebbe essere addirittura il colpo finale contro l’arrestato. Il sommario dell’articolo spiega bene di che cosa si tratta: «La nuova pista porta ai paradisi fiscali del centro Europa. Scattano le verifiche fiscali degli inquirenti». La cronista, sicura, aggiunge dettagli: «I pm hanno disposto le prime verifiche e forse già nelle prossime ore sapranno se la strada appena imboccata porta davvero verso la soluzione del grande giallo di quest’inchiesta: i soldi che non si trovano. Sì, perché dei 5 milioni e 800 mila euro che secondo l’accusa l’ex governatore avrebbe intascato da Angelini (...) non c’è traccia».

Sorpresa: contraddicendo quel che nemmeno due settimane prima era dato per certo, e cioè che le «tre case» acquistate a Roma e i bonifici bancari versati alla compagna erano le «prove certe» che il denaro di Angelini era effettivamente finito nelle mani di Del Turco, si scopre che di prove ce ne sono poche. Sul punto, la giornalista è chiarissima: «Né fra i suoi conti, né fra i mille controlli patrimoniali incrociati con la contabilità delle mazzette tenuta da Angelini, è stata mai trovata un’indicazione, un’operazione sospetta, qualcosa che potesse far percorrere agli inquirenti la via dei soldi. Adesso confidano sulla nuova pista, che porterebbe in un Paese non lontano dall’Italia».

La contraddittoria rivelazione del supertestimone, però, resta senza alcun seguito. Nessuno ne parla più nei giorni successivi, né ilCorriere, né altri quotidiani. La pista dei soldi nascosti all’estero cade nel vuoto, come un ballon d’essai bucato. E per quasi un mese anche Del Turco scompare nuovamente dalle cronache. Riappare sui giornali del 6 settembre 2008, però allontanandosi sempre più dalle prime pagine. SulCorriere della sera, alla pagina ventitre, si annunciano indagini sul passato dell’ex governatore. Ma intanto evapora proprio la notizia della «gola profonda» che avrebbe portato alla pista estera delle tangenti. Al contrario, il cronista Giuseppe Guastella scrive che sono partite delle rogatorie internazionali, ovverossia inchieste all’estero, ma sono condotte su Angelini: sarebbe lui ad avere nascosto i soldi all’estero. «C’è una pista in Inghilterra» dice Guastella «che insegue un fitto intrico di società in paradisi fiscali che, create da un collaboratore (indagato) di Angelini formalmente per sponsorizzare un team del moto-mondiale 250, hanno inghiottito 21 milioni incassati dalle esangui casse della sanità abruzzese». È la seconda, clamorosa sorpresa a favore del governatore.

Il 9 settembre, per la prima volta nei due mesi trascorsi dal suo arresto, Del Turco parla con un giornalista. Lo fa con Carlo Bonini, della Repubblica, che lo intervista mentre l’ex governatore è seduto nell’aula del tribunale di Pescara dove si sta per svolgere l’atteso faccia-a-faccia con il grande accusatore. Del Turco se la prende con il suo partito, che non l’ha difeso; ma soprattutto con Angelini: «Quando ha cominciato ad accusarmi» spiega «Angelini era un uomo finito. Tecnicamente fallito, come ebbe a dirmi l’ingegnere Carlo De Benedetti quando ritenni di sollecitarne gli investimenti in Abruzzo. Non è vero che io ricattavo Angelini. La verità è che nessuno voleva investire nelle sue cliniche perché il suo gruppo era di fatto fallito». Poi Del Turco aggiunge: «Certo che l’ho incontrato. Veniva da me perché era convinto che lo stessero per arrestare. Era ossessionato dalle indagini che la procura e la Guardia di finanza avevano avviato a suo carico. Riteneva che fossi in grado di proteggerlo e non mi dava tregua».

L’intervista è interessante e forse potrebbe anche suggerire qualche approfondimento d’indagine, ma ha un solo esito: il procuratore di Pescara l’indomani minaccia l’apertura di un procedimento perché Del Turco non avrebbe dovuto parlare con il giornalista. Intanto il confronto in aula con Angelini si chiude con un nulla di fatto. L’imprenditore conferma le sue accuse, e l’indagato replica: «Tutte frottole».

Il caso poi scompare nuovamente, s’immerge nel silenzio dei mass media. Riemerge il 14 ottobre 2008, con la notizia che a Del Turco il tribunale del riesame ha restituito la piena libertà. Sono passati tre mesi dall’arresto, ma l’interesse dei quotidiani è già ridotto ai minimi termini: sullaRepubblicala notizia viene affidata a un modestissimo trafiletto sbattuto a pagina quattordici. SulCorriere della seral’articolo scivola addirittura a pagina ventisette, in un taglio basso. Guastella riferisce le dure parole dell’ex governatore sul suo partito: «Il Pd, in questa storia, ha avuto un atteggiamento osceno e omertoso». Del Turco insiste nella sua difesa: «Dice di essere stato l’obiettivo di una lobby trasversale che non accettava regole nella sanità e nella gestione delle infrastrutture, e che ha usato come un ariete Angelini il quale, non sapendo come spiegare i milioni che ha fatto sparire, ha eretto un castello di menzogne».

Ma l’indagato non si è tolto tutti i sassi dalle scarpe; ha ancora qualcosa da dire. Aspetta il 21 ottobre ed esce sulCorrierecon una lunga intervista ad Aldo Cazzullo, che comincia in prima e finisce a pagina dieci. Del resto, per cento giorni Del Turco è stato anche troppo silenzioso. L’ex governatore si lamenta ancora per  la solidarietà che non gli è mai arrivata dal Pd. «Leggo invece chel’Unitàoggi si schiera con la procura e adombra che io vorrei candarmi alle elezioni europee con la destra. Questo è troppo: è il consueto escamotage della scuola comunista. Quando vuoi scaricare qualcuno, lo additi come uno che sta per tradire. Forse è il momento che io racconti come si sono comportati i dirigenti del mio partito, mentre io stavo in galera. Sono stato trattato come un delinquente abituale (...). Non una parola in mia difesa. Io non pretendevo un trattamento di favore; solo il minimo che spetta non dico a un militante del Pd, ma a un qualsiasi cittadino. La presunzione d’innocenza, le garanzie costituzionali: nulla (...). La verità è che per le due culture fondative del Pd, il postcomunismo e il cattolicesimo democratico, il garantismo non significa niente».

L’intervista è uno sfogo amaro. Del Turco se la prende anche con gli inquirenti; ce l’ha soprattutto con il procuratore Trifuoggi: «Mentre io stavo in isolamento, lui teneva una lunga conferenza stampa per dire che contro di me c’era una "montagna schiacciante di prove". Ora, dopo quasi quattro mesi, viene chiesta una proroga alle indagini preliminari». Poi aggiunge: «Sono circolate le voci più assurde. La casa che con i miei sette fratelli abbiamo costruito pezzo a pezzo, un piano sopra l’altro, è diventata un castello che io avrei regalato alla famiglia. A Roma avrei comprato un appartamento in piazza di Spagna e un attico in piazza Navona, per cui non sarebbe bastato il triplo dei soldi che Angelini racconta di avermi dato».

Ancora una volta, sono parole pesanti, accuse significative. Si potrebbero usare come l’inizio di una contro-inchiesta sul caso. E invece da questo momento, sui quotidiani, la Sanitopoli abruzzese s’inabissa, scompare letteralmente. Il 14 dicembre 2008 ilCorrieredà corpo alle voci che Del Turco stia effettivamente «pensando» a candidarsi alle europee con il centrodestra, ma subito dopo arriva la nuova smentita dell’interessato. Nel corso del 2009, pochi quotidiani danno la notizia che la procura di Pescara per altre due volte chiede una proroga dei termini d’indagine, evidentemente ancora alla ricerca di prove molto difficili da trovare. E per quanto strida con il chiasso che l’inchiesta ha fatto per i primi quattro mesi, bisogna aspettare oltre un anno perché un giornale torni seriamente a occuparsi del caso Del Turco. Avviene l’8 gennaio 2010, quandoLa Stampaall’improvviso ricorda a tutti che la dimenticata inchiesta sulla Sanitopoli abruzzese, quasi due anni dopo gli arresti, è ancora in corso. Il giornale sostiene che la procura sembra in difficoltà. L’articolo è duro e molto documentato: «Sono state disposte un centinaio di rogatorie internazionali alla ricerca di conti esteri o di società off-shore. Ma non un soldo è stato trovato e il pilastro dell’accusa resta, essenzialmente, la parola del collaboratore Vincenzo Angelini (...). Nel frattempo dalle carte del processo sono spuntate alcune sorprese: la procura (...) ha dovuto depositare gli atti via via acquisiti. E sono emersi tre o quattro rapporti (uno dei Carabinieri, uno della Guardia di finanza e due della Banca d’Italia) che fino a oggi non potevano essere conosciuti dalle parti e che sembrano andare in una direzione diversa da quella dell’accusa. In un rapporto riservato i Carabinieri avevano chiesto l’arresto di Angelini e di sua moglie, e quanto alla giunta Del Turco si dimostrava che non aveva favorito le cliniche private, ma avviato invece un drastico taglio alle richieste illegittime del loro patron».

Il colpo è forte. L’attenzione si risveglia e i mass media tornano a premere sul caso Del Turco. AllaStampail procuratore Trifuoggi replica il 9 gennaio. Lo fa parlando conLa Repubblica, proprio lo stesso giornale che quattro mesi prima l’alto magistrato aveva criticato per l’intervista «rubata» a Del Turco: «L’indagato continua a difendersi dal processo e non nel processo» sottolinea Trifuoggi in un’intervista con Giuseppe Caporale. «Oltre alla testimonianza di Angelini, sono stati sequestrati due appartamenti a Roma e in Sardegna».

Il procuratore aggiunge che prove di tangenti sarebbero state trovate anche a carico di alcuni stretti collaboratori dell’ex presidente, mentre «i fatti a cui fa riferimento il rapporto dei Carabinieri sono stati valutati e utilizzati per l'indagine». Infine, Trifuoggi dichiara: «Non risulta che la giunta regionale dell'epoca abbia fatto alcunché per ridurre il deficit della sanità, se non in esecuzione di imposizioni governative, tanto che poi la Regione è stata commissariata».

Quello stesso 9 gennaio Del Turco parla con il Corriere della sera e rilancia la sua accusa: «Il vero problema» dice «è dove sono andati i soldi che Angelini ha tolto al bilancio delle sue aziende. Noi stavamo solo cercando di bloccare lo spreco». E di fronte alle parole di Trifuoggi, intervistato subito dopo anche daLibero, l’indagato protesta con toni esasperati: «Ho ricevuto una sentenza di condanna a morte civile tramite una conferenza stampa della procura mentre ero in carcere. Poi, sulla Stampa, risponde direttamente al procuratore: «Io difendermi dal processo? Si sbaglia. Uscendo dal carcere di Sulmona, dissi di aspettare con ansia il processo. Lo immaginavo per direttissima, visto che si annunciavano prove schiaccianti. Ma le prove non c’erano e non ci sono. Neppure una!».

La polemica insiste e trova un nuovo momento d’intensità all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Su tutti i quotidiani del 27 gennaio 2010 esce la notizia che i magistrati di Pescara, punti sul vivo da una serie d’interrogazioni parlamentari che adombrano l’occultamento di prove a discarico di Del Turco, chiedono espressamente al ministro della Giustizia d’inviare un’ispezione in procura per «fare chiarezza sulle modalità dell’inchiesta». Secondo i pm abruzzesi è in corso «una campagna di delegittimazione nei confronti dell’operato dei magistrati titolari del procedimento».

Ma le polemiche passano. Passa anche qualche settimana e il 19 febbraio la procura di Pescara finalmente chiede il rinvio a giudizio per Del Turco, accusato ufficialmente di concussione e di associazione per delinquere. Indagate sono altre 31 persone, tra le quali anche Angelini. La vicenda processuale, però, ha irrimediabilmente perso il suo appeal e (come se si fossero accordati) sia sullaRepubblicasia sulCorrieremerita appena un articolino di spalla a pagina 13. Anche i tempi processuali si dilatano: il giudice fissa l’udienza preliminare con calma, per il 12 maggio 2010. Nulla pare riuscire a riaccendere l’interesse per il caso. Sì, i giornali riaprono un occhio quando il 27 aprile Angelini viene arrestato per bancarotta. Quella che per Del Turco sembra una rivincita morale, il giorno dopo finisce a pagina ventidue sulCorriere: «Il grande accusatore di Ottaviano Del Turco» racconta Alessandra Arachi «da ieri è agli arresti domiciliari. Una brutta storia che riguarda le sue cliniche (…): da quasiquattrocento giorni 1.500 suoi dipendenti sono senza stipendio. Ma, nel frattempo, Angelini ha costantemente sottratto soldi al bilancio della clinica, circa 100 milioni di euro per intestarli semplicemente a se stesso». Da Del Turco arriva un solo commento: «Sono un vecchio garantista» dice. «Non gioisco mai di fronte a un arresto. Nemmeno di quello del peggior nemico».

Alla metà di maggio l’udienza preliminare inizia senza particolari brividi. I giorni passano pigramente, tra obiezioni procedurali e interrogatori di testimoni. Un mese dopo, invece, la polemica tra accusa e difesa si riaccende, improvvisa e velenosa, per le parole che il procuratore adopera in aula il 14 giugno. Ecco come le riporta, testualmente, il giornalista Caporale sullaRepubblicadel giorno dopo: «Sesso telefonico sulle linee della Regione, uffici dell'ente trasformati in alcova, amanti stipendiate come consulenti della giunta, viaggi di piacere in alberghi a cinque stelle con i soldi pubblici. E Angelini che pagava tangenti. Tutto questo mentre la Regione sprofondava nel debito sanitario. Funzionava così, con Ottaviano Del Turco governatore dell'Abruzzo».

Questo racconta il cronista, introducendo lo scandalo che ha sconvolto l’udienza; sì, perché Trifuoggi a un certo punto ha cominciato a «citare in modo esplicito alcune intercettazioni a luci rosse, telefoniche e ambientali, di Del Turco e di alcuni componenti del suo staff, per spiegare la “strumentalizzazione dell'ufficio pubblico per usi privati” e quindi per formulare l’accusa di associazione a delinquere». A quel punto scoppia il caos in aula. «E così» scrive Caporale «l’udienza (…) si trasforma in una bagarre. Con l'ex ministro delle Finanze che assieme al suo legale, Gian Domenico Caiazza, abbandona l’aula per protesta: “Quando non si hanno molti argomenti per dimostrare un'accusa così rilevante come quella che mi è stata

mossa” ha protestato Del Turco “si ricorre al dileggio personale”». Nell’articolo prende la parola anche l’avvocato: «Non potevamo tollerare oltre il disprezzo della privacy del mio assistito; abbiamo interrotto la partecipazione a un'udienza in cui si parlava di fatti privatissimi, dei quali non sappiamo nulla. Con il deposito delle indagini suppletive ci saremmo aspettati che finalmente si fornisse qualche documento, uno straccio di prova e di riscontro alle accuse di Angelini. Invece dobbiamo ascoltare pettegolezzi poco commendevoli: per questo ci alziamo e ce ne andiamo. Quando il processo tornerà a essere un processo, noi saremo di nuovo qui».

Il 16 giugno 2010 la polemica sulla telefonata hard continua. Il Corriere dà la parola prima a Del Turco: «Hanno usato una mia telefonata privata che non aveva niente a che fare con le accuse, a parte il peculato di pochi centesimi (…). Mi hanno dipinto come un satrapo con impulsi irrefrenabili solo perché non hanno nulla contro di me». Poi il giornale intervista Trifuoggi: «Nessun dettaglio. Nessuna lettura. Solo un accenno a quella telefonata con una signora, gratificata da incarichi pagati dalla Regione che sono oggetto di valutazione per eventuali imputazioni. Gli affari privati non ci riguardano. I soldi pubblici sì».

Partita in parità, apparentemente. Ma ancora una volta un processo si trasforma in luogo di devastazione per l’immagine privata di un indagato. Con accuse che obiettivamente poco hanno a che fare con il contenuto dell’inchiesta, ma sembrano arrivare in aula allo scopo di denigrare l’accusato e di fare notizia sui mass media.

Trascorrono quattro mesi e mezzo, e martedì 30 novembre i giornali annunciano il rinvio a giudizio, deciso dal giudice Angelo Zaccagnini. «Confermata l’accusa di corruzione per l’ex governatore », scriveIl Fatto Quotidiano. Il giornale dedica quasi una pagina intera, la nove, alla vicenda: «Per l’Abruzzo non è jun terremoto, ma poco ci manca» scrive Chiara Paolin. «Un evento clamoroso, data la caratura del personaggio (...). Le accuse formalizzate ieri dal giudice Angelo Zacagnini sono pesanti e accolgono in toto le richieste dei pm: associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Credibile dunque la tesi sostenuta da Vincenzo Angelini». Aggiunge la cronista: «Destra e sinistra, corrotti e corruttori, accuse incrociate e dettagli piccanti che negli ultimi mesi avevano dato all’inchiesta un taglio perfino leggero. Tra le intercettazioni fecero scalpore lo scorso giugno quelle in cui lo stesso Del Turco intratteneva conversazioni a dir poco private. “Sesso telefonico sulle linee della Regione, uffici dell’ente trasformati in alcova, amanti stipendiate come consulenti della giunta, viaggi di piacere in alberghi a cinque stelle con i soldi pubblici mentre l’Abruzzo sprofondava nel debito sanitario”: così raccontava il procuratore Trifuoggi».

Il giudice Zaccagnini stabilisce che il processo comincerà il 15 aprile. IlMessaggeroannota, con un’abbondante metà della sua pagina dieci, che «la decisione taglia di netto tutte le polemiche che anno caratterizzato questa difficile e delicata inchiesta, e soprattutto cancella con un sol colpo il processo mediatico-giudiziario che, diversi mesi fa, aveva annunciato il flop dell’inchiesta e l’assoluzione del principale indagato della vicenda, Ottaviano Del Turco». Il cronista Maurizio Cirillo aggiunge che «la conclusione non era certo scontata, vista la battaglia legale di questi ultimi quattro mesi di udienze preliminari, fatte molto spesso a colpi d’intervista fuori dall’aula del tribunale più che di fatti nel merito della vicenda giudiziaria vera e propria». Ma sottolinea soprattutto che la decisione del giudice «sposa», quindi accoglie «in pieno» le tesi dell’accusa. Dimenticando forse che una cosa è l’udienza preliminare, che avvia un processo, un’altra è la sentenza che lo chiude.

Qualche dubbio in più viene registrato soltanto suLibero, che il primo dicembre 2010, a pagina diciotto, così titola: «Del Turco va a processo, e di tangenti non c’è traccia». «Non è in questa sede che si possono improvvisare sentenze» scrive Andrea Scaglia «e bisognerà aspettare il procedimento. Ma vale la pena di elencare le perplessità fin qui emerse. Per dire: Angelini dichiara di avere versato le mazzette a Del Turco tra il marzo e il giugno del 2006 in contanti, perfino fotografando le consegne. Cioè, proprio la consegna no, perché non esiste immagine del momento in cui sarebbe avvenuta, né una fotografia nella quale compaia Del Turco. Tra l’altro, la difesa fa notare che proprio in quei giorni, a fronte dell’ipotetica, enorme disponibilità di contanti, l’ex governatore partecipa all’acquisto di una casa per il figlio, ma per farlo mette all’asta alcuni suoi quadri».

Dubbi più che legittimi, quindi. «In ogni caso, la procura va a caccia dei soldi» ricorda Scaglia. «Dispone un centinaio di rogatorie internazionali, cerca conti esteri e società off-shore. Ma non trova niente, neanche un euro (...). E dunque di soldi sporchi i magistrati non ne rintracciano, pur cercandoli dappertutto (...). In realtà, adesso vengono rinfacciate a Del Turco un paio di operazioni immobiliari. Per esempio, l’acquisto di una casa a Roma e di un’altra di 35 metri quadrati in Sardegna, nei pressi di Oristano. Complessivamente, 600 mila euro. E però, ribatte la difesa, questi acquisti sono stati effettuati con assegni e tramite bonifici da conto corrente, con operazioni bancarie facilmente ricostruibili e in effetti ricostruite».

Insomma, l’indagato avrebbe adottato un comportamento così trasparente, per i suoi acquisti, che difficilmente può coincidere con un’origine corrotta del denaro, a meno che Del Turco non si riveli come  il più ingenuo dei criminali. Aggiunge il giornalista: «Senza contare che l’acquisto della casa di Roma è precedente al periodo in cui Angelini dice di avere consegnato le tangenti». Né esistono prove del passaggio di denaro tra Del Turco e gli altri coindagati dell’associazione per delinquere. Conclude Scaglia: «Tutti dubbi che il tribunale dovrà sciogliere. E ce ne sarà parecchio, da discutere».

Indubbiamente è così. Ma, a parteLiberoe pochissime altre voci isolate, contro Del Turco la sentenza sui giornali pare già scritta. E di tutto pare trattarsi, tranne che di un’assoluzione. Chissà, forse l’ex governatore abruzzese è davvero colpevole. Magari, alla fine del processo, sarà anche condannato, chi lo può dire? Gian Domenico Caiazza, il difensore di Del Turco, fa professione di grande ottimismo: «La procura non ha trovato traccia di un centesimo che fosse men che regolare. Non ha scoperto proprio nulla di nulla. E ora, finalmente, comincia il processo pubblico».

Si vedrà se i giornali e le tv lo seguiranno con la stessa attenzione dedicata alle indagini preliminari. Di certo, fin qui, la partita che si è giocata sui mass media non è stata né equilibrata, né corretta. Troppi sono i dubbi sulle accuse di Angelini, troppi i ragionamenti accusatori suscettibili di una smentita razionale. In casi come questi, il giornalismo dovrebbe cercare con maggior forza di evitare la gogna. E dovrebbe dedicarsi una volta di più al dovere del dubbio.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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