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ANSA/ ETTORE FERRARI
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Consulta: dove sbaglia il ministro Padoan

Il ministro dell'Economia dice: "La Corte deve fare una valutazione dell'impatto delle sue sentenze". Per nulla: è il legislatore che deve scrivere bene le leggi. Rispettando la Costituzione

«Mi lascia perplesso che la Corte costituzionale sostenga di non dover fare valutazioni economiche sulle conseguenze dei suoi provvedimenti e che non c'era una stima sull'impatto, che non era chiaro il costo». E ancora: «Non dico ovviamente che bisogna interagire nella fase della formulazione di una sentenza, perché l'autonomia della Consulta è intoccabile, ma se ci sono sentenze che hanno un'implicazione di finanza pubblica deve esserci una valutazione dell'impatto».

Queste sono due frasi attribuite oggi dal quotidiano La Repubblica al ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, a proposito della sentenza n° 70 del 2015 che ha sonoramente "bocciato" il taglio della rivalutazione delle pensioni deciso dal governo Monti nel 2011.

Le parole del ministro Padoan suscitano qualche perplessità anche in chi considera sacrosanto il diritto democratico della politica a legiferare liberamente, senza interferenze da parte della magistratura.

In questo caso, però, Padoan sbaglia. Sbaglia perché la questione è diversa e afferisce alla scrittura delle leggi. In questo caso, la legge che ha ratificato il decreto “Salva Italia" del dicembre 2011 era malconcepita, scritta male e fondamentalmente incostituzionale per colpa del mancato equilibrio e della mancata progressività dei sacrifici imposti ai pensionati italiani.

Che altro avrebbe dovuto fare, la Corte costituzionale, se non dichiarare incostituzionale quela norma? Avrebbe dovuto forse arrestarsi perché la sua decisione avrebbe provocato danni alle compatibilità economiche del governo Renzi? Per l'impatto negativo sui costi?

Non sta né in cielo, né in terra.

Il governo e il Parlamento hanno il diritto costituzionale di legiferare, ci mancherebbe. E hanno anche quello di stabilire le "compatibilità economiche" in campo fiscale, previdenziale... Ma la nostra Costituzione contiene principi fondamentali dai quali l'operare del legislatore non può allontanarsi. Uno di questi principi attiene alla proporzionalità e all'adeguatezza del trattamento pensionistico (articoli 36 e 38 della Costituzione). E la norma varata dal governo Monti, evidentemente, quei principi non li rispettava affatto.

Leggiamo la parte finale della sentenza della Consulta: "La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la contingente situazione finanziaria, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante Legge di contabilità e finanza pubblica".
L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.
La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti".

Chiaro, no? Qualche riga sopra, la Corte costituzionale spiega poi con grande chiarezza che cinque anni fa (con la sentenza n. 316 del 2010) aveva valutato del tutto costituzionale un altro taglio delle perequazioni pensionistiche, quello stabilito nel 2007: "Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007), questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente nell’esigenza di reperire risorse necessarie a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243, con lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge.
In quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo. L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante".

La Corte insomma, inoltre, aveva ritenuto che la legge del 2007 non avesse  violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, "operato esclusivamente sulle pensioni superiori a un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste".

La scelta del legislatore, aveva in quel caso stabilito che la legge "era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee".

Insomma: il taglio dei meccanismi perequativi operato nel 2007 era stato fatto bene, mentre il decreto Salva Italia e la norma che lo aveva ratificato erano scorretti dal punto di vista costituzionale.

C'è infine un brano della sentenza della Consulta che spiega con estrema chiarezza quali siano i compiti del legislatore sulla materia: "Al legislatore spetta individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita".

Ritorna pertanto la domanda: che cos'altro avrebbe dovuto fare, la Consulta?



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