Condanna Berlusconi: perché è una persecuzione
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Condanna Berlusconi: perché è una persecuzione

In 20 anni ha ricevuto più accuse di criminali e mafiosi - lo speciale di Panorama.it -

Uno dei suoi più recenti avversari politici, Beppe Grillo, sperava nella condanna e se la rideva così: «Vedrete che farà la fine di Al Capone, sbattuto in galera per una banale evasione fiscale». L’ex comico era stato fra i tanti che avevano scommesso sulla fumata bianca della Cassazione nel processo sui diritti tv Mediaset, l’ultimissimo capitolo nel romanzo della straordinaria kermesse giudiziaria che per 20 anni ha avvolto Silvio Berlusconi in un vortice di fuoco.

In effetti, a basarsi sul crudo dato statistico, il quattro volte premier sembra anche peggio del sanguinario gangster di Chicago. Con i 33 procedimenti penali subiti in Italia dal 1994 a oggi, più uno a Madrid, il Cavaliere batte perfino Totò Riina. Al suo con- fronto, il capo dei capi di Cosa nostra pare quasi un dilettante: dal 1990 è stato imputato in «appena» 19 processi, uno solo dei quali ancora in corso, quello per la presunta trattativa fra Stato e mafia. Per completezza della cronaca: a differenza di Berlusconi, Riina è stato assolto in un caso soltanto (dall’accusa di avere ordinato l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, per insufficienza della prova), ma ha accumulato 17 ergastoli.

«Io sono l’uomo più perseguitato della storia» ha detto una volta l’ex premier, con amaro tono scherzoso. Di certo è quello più accusato del più ampio spettro di reati. In ordine alfabetico: abuso d’ufficio, aggiotaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, concorso esterno in associazione mafiosa, concorso in strage, concussione, corruzione semplice e giudiziaria, insider trading, falso in bilancio, finanziamento illecito dei partiti, frode fiscale, peculato, prostituzione minorile, ricettazione, riciclaggio, rivelazione di segreto d’ufficio, vilipendio dell’ordine giudiziario.

Non si ricorda un altro politico, né un qualunque cittadino sottoposto a un fuoco di filadi questa portata. Persecuzione? Accanimento giudiziario? Messi in fila, i 34 procedimenti berlusconiani, per un totale di 2.497 udienze di tribunale, sono praticamente un’enciclopedia del crimine. Senza contare che altre 108 inchieste hanno riguardato le sue aziende. Per organizzare la difesa sono stati coinvolti 134 avvocati (l’ultimo è stato Franco Coppi) e 69 consulenti, che in poco meno di 20 anni sono costati oltre 400 milioni di euro.

Guarda lo schema con tutti i procedimenti

Gli avversari sostengono che Berlusconi se la sia sempre cavata grazie alle «leggi ad personam». Ma è un falso storico (vedere lo schema nelle pagine 56 e 57). Perché le assoluzioni in qualche modo influenzate da modifiche legislative sono state soltanto 2 su un totale di 8 (nei processi All Iberian 2 e Ariosto-Sme 2). Ed è vero che ci sono stati 6 annullamenti per prescrizione.

Però i processi contro il Cavaliere in 14 casi sono stati archiviati prima del rinvio a giudizio, sia pure dopo lunga gogna mediatica. Perché proscioglimenti e assoluzioni sono arrivati dopo anni di dure accuse e di cronache avvelenate.

Molti ricordano il primo, clamoroso caso: l’ordine di comparizione del 22 novembre 1994, che contribuì a fare cadere il primo governo Berlusconi e fu recapitato prima alCorriere della serae poi al diretto interessato, impegnato a Napoli nella conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata, rivelando al mondo che il premier italiano era indagato per corruzione. La reazione più dura venne da Francesco Cossiga: «Ritiro la prefazione al libro scritto da Antonio Di Pietro» denunciò l’ex capo dello Stato «perché il pool sta facendo politica». Berlusconi rivelò un aneddoto: «Un avversario politico» disse «mi ha riferito, un po’ indignato, la frase di un pm milanese: “O arriviamo prima noi a colpirlo, o arriva prima lui a rafforzarsi”». L’imputato fu poi assolto per non avere commesso il fatto e in parte per insufficienza probatoria. L’assoluzione però arrivò solo il 19 ottobre 2001: dopo 7 anni e due campagne elettorali condotte sotto le forche caudine di un’accusa infamante.

La guerra dei Vent’anni, a quel punto, era già esplosa. Nel dicembre 1996 Berlusconi aveva denunciatoa Brescia i magistrati di Milano per attentato a organo costituzionale, ipotizzando che la caduta del suo governo fosse stata agevolata dal palazzo di giustizia. La denuncia fu archiviata 5 anni dopo dal giudice Carlo Bianchetti: stabilì che, «contrariamente alle lamentazioni del denunciante, le iniziative giudiziarie avevano preceduto e non seguito la sua decisione di scendere in campo». Scrisse Bianchetti che la Finanza aveva perquisito 25 volte le aziende berlusconiane tra il 27 febbraio e il 20 luglio 1993: «L’avvio di indagini collegate in nessun modo può connotarsi come attività originata dalla volontà di sanzionare il sopravvenuto impegno politico dell’indagato». Fine della denuncia.

A Milano, in realtà, l’attacco giudiziario era stato preannunciato dall’allora procuratore Francesco Saverio Borrelli, che il 20 dicembre 1993 aveva lanciato uno strano monito: «Chi sa di avere scheletri nell’armadio o vergogne del passato si tiri da parte, prima che arriviamo noi: chi si vuole candidare si guardi dentro». Nessuno si scandalizzò: era il «rito ambrosiano», che piaceva tanto ai giornali. Ma quelle parole vennero universalmente lette come un improprio avviso di garanzia nei confronti di Berlusconi che appena un mese prima, il 23 novembre, aveva appoggiato la candidatura di Gianfranco Fini nelle elezioni comunali di Roma. La discesa in campo fu poi ufficializzata il 26 gennaio 1994, con il discorso televisivo che lanciò Forza Italia alle elezioni del 27 marzo. E il 12 febbraio, a Milano, Paolo Berlusconi fu arrestato con l’accusa di corruzione. Da allora, a varie latitudini, è entrato in funzione un curioso meccanismo di giustizia a orologeria. Ogni elezione, quasi ogni momento decisivo della politica italiana, è stato segnato da una qualche attività giudiziaria antiberlusconiana. L’attacco ha coinvolto le Procure di Roma, Palermo, Napoli, Modena, Monza, Firenze e Caltanissetta. Dalle ultime due Berlusconi fu indagato con Marcello Dell’Utri perfino per strage, nella devastante ipotesi di un collegamento con la mafia per «finalità terroristica e di eversione dell’ordine democratico». I nomi dei due indagati vennero celati dietro agli pseudonimi Alfa e Beta a Caltanissetta, Autore 1 e Autore 2 a Firenze: ufficialmente per proteggerne l’identità, di fatto accrescendo il mistero sulle inchieste e quindi il colore giornalistico delle cronache che seguirono.

I due indagati furono tenuti sulla graticola per anni, prima dell’archiviazione. Ma una ricca pubblicistica continua a propagarne il fango. Del resto, in Sicilia, alla metà degli anni Novanta quasi si perse il conto dei processi per mafia e riciclaggio rumorosamente aperti (e silenziosamente chiusi) contro il Cavaliere e i suoi collaboratori. Lui se ne lamentò così: «In uno Stato di diritto si persegue qualcuno in base a una notizia di reato; in uno Stato di polizia si dà addosso a un avversario, alla ricerca di un possibile reato. Ecco, questo è quel che capita a me».

Certo, Berlusconi non è mai stato tenero con i magistrati. Ma i suoi legali ricordano che il cliente ha qualche serio motivo di esasperazione. Non solo per le plurime attenzioni, ma anche per i tempi da record che i tribunali, spesso in lotta contro la prescrizione, gli hanno riservato. Ci fu chi contò che nel processo Mills, nel gennaio 2010, la corte milanese stabilì un calendario mai visto sulla faccia della Terra: 22 udienze in due mesi. Mentre, alla fine del processo di primo grado per i diritti tv Mediaset, il 26 ottobre 2012 il giudice Edoardo D’Avossa entrò in aula dopo la camera di consiglio e, caso più unico che raro nella storia della giustizia italiana, lesse le motivazioni della sentenza insieme con il dispositivo che condannava Berlusconi a 4 anni di reclusione più 5 di interdizione dai pubblici uffici.

Va detto che tutto il processo Mediaset ha avuto un ritmo forsen- nato: nel febbraio 2011 lo stesso D’Avossa aveva dimezzato la lista dei testi della difesa da 22 a 11 (ma rispetto alla lista iniziale di 171 ne erano già stati eliminati altri 148) in quanto ascoltarli sarebbe stato incompatibile «con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo». «È inaccettabile» avevano inutilmente protestato Niccolò Ghedini e Piero Longo, legali del premier: «La procura ha fatto sfilare tutti i suoi testi e ora che tocca alla difesa ci si accorge che bisogna fare in fretta». Per il secondo grado del processo Mediaset sono poi bastati meno di 7 mesi di udienze, contrassegnati da duri contrasti sul calendario e dall’inusitato ricorso alle visite fiscali su un Berlusconi ricoverato all’ospedale San Raffaele per problemi agli occhi. E al solo scopo di evitare la prescrizione si è adottata una procedura che dire accelerata è poco: appena 83 giorni dalla condanna d’appello, l’8 maggio 2013, all’udienza affidata alla Cassazione il 30 luglio.

Ma con il Berlusconi imputato, va da sé, i paradossi sono la regola. Il 7 marzo scorso è stato condannato in primo grado a Milano per rivelazione di segreto d’ufficio: 1 anno di carcere (ma la prescrizione arriverà il 2 settembre) perché avrebbe passato alGiornaledi suo fratello Paolo l’intercettazione di Giovanni Consorte, top manager della Unipol, con Piero Fassino. Curioso: non si ricordano molte altre condanne per lo stesso tipo di reato. Intanto però, a decine, le intercettazioni telefoniche di Berlusconi, indebite in quanto parlamentare, sono uscite dai cassetti degli inquirenti e sono esposte al pubblico ludibrio su internet, a volte con tanto di sonoro. È stato così soprattutto negli ultimi casi, dalle indagini baresi sui rapporti con la escort Patrizia D’Addario al processo Ruby: probabilmente perché il carattere pruriginoso delle due inchieste accresceva il potenziale distruttivo sull’immagine dell’imputato.

C’è sicuramente anche un problema di relazioni con la magistratura, ed è anche una questione di casta. Dal 1996, a ogni elezione, il centrodestra ha sempre minacciato di tagliare le unghie ai pubblici ministeri e di limitare i privilegi della categoria. È vero che poi non ha agito, limitandosi a qualche provvedimento sulla procedura penale. Ma intanto ha acceso allarmi corporativi, saldando la generica inimicizia dell’ordine giudiziario con le inclinazioni politiche di parte dei suoi aderenti. Nell’aprile 2011 Il Giornale pubblicò le email di alcuni pm sindacalizzati: «Ricordiamoci che questa maggioranza è riuscita ad approvare la riforma dell’università, nonostante il duro e fantasioso antagonismo degli studenti» scriveva uno. Che aggiungeva: «Noi dobbiamo fare di più, e meglio». E un altro usava toni da avversione quasi ontologica: «Quando lo zietto Silvio avrà tolto il disturbo, rimarranno comunque i suoi elettori. I politici passano, una certa società civile purtroppo resta».

Vogliamo dire che in questo clima non deve essere facile, per un giudice, dare prova di garantismo? Vogliamo aggiungere che il sistema ha mezzi convincenti per convincere i più riottosi, gli indipendenti? Un caso, da solo, la dice lunga. Il 10 dicembre 2004 il giudice milanese Francesco Castellano, allora presidente della prima sezione penale, assolse il Cavaliere dall’accusa di corruzione nel processo Ariosto-Sme 1. Con quell’atto Castellano sollevò un vespaio di critiche, dentro e fuori la categoria, perché demoliva un caposaldo giudiziario durato un decennio. In tribunale lo isolarono, neanche avesse l’aura negativa dei protagonisti degli antichi spot contro l’aids, segnalati da cupi contorni violacei. Indifferente, Castellano tirò dritto. Nell’aprile 2005 depositò 156 pagine di motivazione: scrisse che sì, alcune ipotesi di reato erano cadute per la prescrizione, ma Berlusconi andava assolto con formula piena dall’accusa di avere pagato il giudice Renato Squillante. La sentenza definì anche «contraddittoria e lacunosa» la principale teste dell’accusa, Stefania Ariosto, per anni celebrata come eroina dalla stampa antiberlusconiana. Insomma, una dura botta per la procura, quasi un atto di ostilità.

Tre mesi dopo, scoppiò l’estate delle grandi scalate finanziarie. E Castellano fu accusato di aver passato notizie riservate a Giovanni Consorte, indagato per vari illeciti nella tentata acquisizione della Bnl. Per mesi i quotidiani più vicini al circuito giudiziario massacrarono Castellano: traditore, infedele servitore dello Stato... Il Csm decretò il suo trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. Alla fine il giudice fu prosciolto. Ma solo dopo un anno e mezzo di graticola, nel gennaio 2007.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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