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Trump: la componente militare nella sua presidenza

Se non favorevole, di certo si è mostrata leale e collaborativa. E con il generale dei marines John Kelly alla guida dello staff è diventata dominante

Forse. Ormai l’avverbio, scrivendo di Donald Trump, dovrebbe diventare obbligatorio. Forse al Presidente è rimasto solo il Pentagono come amico dal momento che l’uomo della salvezza, come ammettono anche i nemici più feroci del tycoon, potrebbe essere il nuovo capo dello staff: il generale dei Marines John Kelly.

In effetti la componente militare (ricordiamo ancora tutti MOAB, la madre di tutte le bombe sganciata sull’Afghanistan nell’aprile scorso) se non favorevole al Presidente, sino a questo momento si è mostrata sempre leale e collaborativa. Non ha nemmeno sollevato polemiche dopo che Trump ha congelato il previsto surge proprio in Afghanistan, al quale i generali del Pentagono hanno lavorato alacremente negli ultimi mesi, per frenare il crescente dinamismo talebano.

Ben diverso è il rapporto con la Marina, che non cambia rotta alle navi ignorando l’ordine (ma il commander in chief può emanare un ordine via twitter?) di dirigersi verso la Corea del Nord; pessimo il rapporto col Dipartimento di Giustizia (quando Jeff Sessions arriva alla Casa Bianca Trump cambia platealmente ala dell’edificio), catastrofico quello con il mondo dell’Intelligence: licenziare in tronco il capo dell’FBI, come ha fatto Trump con Comey, significa, al di là del merito, creare una falla tecnica nei protocolli operativi dello spionaggio e del controspionaggio.

Qualcuno ha scritto che a questo punto West Point vince contro Goldman Sachs, riferendosi all’ascesa di Kelly e alla rimozione a tempo di record di Anthony Scaramucci. È una suggestione, ma finisce lì, perché se è vero che i militari dell’Accademia di West Point qualche battaglia e qualche guerra l’hanno persa, Goldman Sachs vince sempre. Avrebbe vinto con Hillary, come le e-mail riservate ci hanno dimostrato - ha vinto con Trump che ha scelto come Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, uomo di punta della banca.

Trump si aggrappa insomma alla citazione del suo inimitabile tormentone televisivo “you’re fired”, applicandolo indifferentemente a comparse da reality o a membri delle istituzioni: in pochi giorni ha fatto quindi fuori Reince Priebus e, solo ieri, Anthony Scaramucci. La sua intervista involontaria al New Yorker gli è stata fatale perché Kelly non l’ha perdonato, chiedendone di fatto la testa a Trump.

Però una cosa a Scaramucci va riconosciuta. Nella sua telefonata al New Yorker (che tra qualche anno verrà studiata nelle università) divenuta appunto grazie alla trascrizione un’intervista a tutto campo, Scaramucci è l’unico esponente del cerchio magico del Presidente che abbia avuto parole di biasimo per Steve Bannon.

L’anima nera del trumpismo è sempre presente, in un ruolo solo in apparenza defilato, ma non bisogna farsi ingannare dal nero che si confonde nell’ombra. Col suo linguaggio colorito e degno di un Rocco Siffredi, Scaramucci ci ha regalato un ritratto di Bannon importante, confermando che l’America profonda, supermatista e razzista, non ha ancora lasciato la Casa Bianca.

Vedremo ora se il nuovo capo dello staff – che ha incassato il sostegno iniziale dei media (l’altro grande potere in gioco) continuerà con le “pulizie a fondo” in stile corpo dei Marines.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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