Sei anni di guerra civile in Siria, i punti chiave
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Sei anni di guerra civile in Siria, i punti chiave

La conta dei morti, la nascita dell'Isis, le prospettive: il conflitto che sta cambiando il volto del Medioriente

La data di esordio della guerra civile siriana può essere considerata il 15 marzo 2011, quando migliaia di manifestanti nelle principali città del Paese scesero in piazza contro il governo centrale, sulla scia della cosiddetta primavera araba scoppiata in Egitto, a Piazza Tahir, e dilagata presto in quasi tutti gli Stati mediorientali.

LA CONTA DEI MORTI
Le prime dimostrazioni pubbliche che avevano come obiettivo dichiarato le dimissioni del presidente Assad e la fine del regime monopartitico del Baath erano pacifiche e democratiche, animate dai ceti urbani progressisti delle più importanti città del Paese. Furono la violenta risposta repressiva del regime - che non avrebbe esitato a usare nel 2013 le armi chimiche e ricorse subito all'aiuto di piazza delle famigerate bande paramilitari degli Shabīḥa - e l'ingresso nel teatro bellico  di quasi tutti i Paesi confinanti - dalla Turchia ai Paesi del Golfo, fino all'Iran sciita - a trasformare una rivolta giovanile in una delle più grandi tragedie della storia dai tempi della seconda guerra mondiale, con un numero di vittime che secondo il Syrian Observatory for Human Rights ha raggiunto nel marzo 2017 le 321 mila mila persone, in larga parte civili non combattenti: quasi il 10% della popolazione siriana, anche secondo le statistiche fornite dall'Onu, è morta o è rimasta mutilata durante la guerra, mentre 10 milioni di persone sarebbero state costrette ad abbandonare le loro case. Non c'è retorica nel definire la guerra civile siriana come «la più grande crisi umanitaria contemporanea», con un numero complessivo di persone che avrebbero bisogno, secondo l'Onu, di assistenza immediata supera largamente i dieci milioni, più della metà della popolazione civile complessiva.

I FATTORI GEOPOLITICI
È la posizione chiave della Siria in Medioriente, che confina a nord con la Turchia, a est con l'Iraq, a sud con la Giordania, a ovest con Israele e Libano, che ha trasformato una guerra civile nazionale contro il regime di Assad in un conflitto regionale e planetario, dove a combattersi non sono soltanto le milizie e l'esercito ufficiale, ma - per procura - tutte le grandi potenze dell'area e, anche, mondiale: dalla Turchia che, agli albori della guerra, fu probabilmente il Paese che più generosamente finanziò le fazioni armate di opposizione per indebolire il nemico Assad agli Stati sunniti del Golfo persico, fino all'Iran sciita e alla Russia, storici alleati del regime sciita-alawita di Assad. Vaso di coccio tra vasi ferro, la Siria è la vittima sacrificale di una guerra per procura planetaria, dove anche gli Stati Uniti della coppia Obama-Clinton han sin dal principio svolto un ruolo ambiguo, nell'illusione di poter abbattere il regime filorusso degli Assad. A complicare il quadro, favorendo l'estensione del teatro bellico, c'è la delicata composizione etnica e geografica del Paese, un puzzle di etnie e comunità che storicamente solo il pugno duro del regime sciita degli Assad ha tenuto forzosamente unite.

LA NASCITA DELL'ISIS
Lo Stato islamico di Abu Bakr Al Baghdadi - con il suo sogno di unificare il Sunnistan siro-iracheno e seppellire definitivamente gli accordo coloniali di Sykes Picot - diventa un soggetto chiave nel teatro bellico siriano soltanto nel 2013, quando i combattenti sunniti iracheni che avevano partecipato all'insurrezione antiamericana di Falluja e Ramadi (e che in gran parte provenivano dalle fila dell'esercito di Saddam) decidono di estendere il teatro bellico anche all'area sunnita della Siria, dove in pochi mesi - grazie anche all'inazione delle potenze occidentali - sarebbe nato il tragico esperimento del Califfato, con capitale Raqqa.

I fattori che favorirono il consolidamento dell'Isis, in una vasta area nel cuore del Paese, erano anche e soprattutto geopolitici e finanziari:  i soldi alle strutture di comando dello Stato islamico affluirono inizialmente dalle fondazioni dei Paesi sunniti del Golfo, nell'indifferenza delle potenze mondiali. Il ferreo controllo esercitato dall'Isis sulla popolazione civile nei territori sotto il suo controllo fu possibile  anche grazie al contrabbando di greggio e di opere d'arte trafugate attraverso il poroso confine turco-siriano, poco e mal presidiato dagli uomini del sultano Erdogan, più preoccupati di «non fare un favore ai curdi» e di eliminare il nemico Assad che di avere un fattore di instabilità al confine. Oggi l'Isis - che nel 2015 era arrivato a controllare un quarto del territorio e conterebbe tra le sua fila almeno 30 mila foreign fighters provenienti dai Paesi europei e mediorientali - è in fase di pieno ripiegamento strategico, dopo l'ingresso in massa della Russia nel teatro bellico e il cambio di strategia imposto da Trump nel Paese. Non solo in Siria, anche in Iraq.

LE PROSPETTIVE
Al di là
dei colloqui di pace di Astana in Kazakistan, voluti dalla Russia, disertati però da parte di molte organizzazioni paramilitari presenti sul teatro siriano, la soluzione della guerra civile  non può che essere una soluzione di tipo internazionale, che metta d'accordo tutte le potenze regionali, dai Paesi del Golfo alla Turchia, dall'Iran all'Egitto, fino a Russia e Stati Uniti. L'avvicinamento tra Putin e Trump - in un contesto in cui esistono decine di milizie largamente finanziate dai Paesi circostanti - potrebbe contribuire a sconfiggere l'Isis, sulle cui ceneri però potrebbe nascere qualcosa di ancora più radicale, come Tahir Al Sham.

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