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Panama Papers: "ecco come sono stati scoperti gli evasori"

Parla Alessia Cerantola, giornalista italiana che ha lavorato alla maxi inchiesta. Come è iniziata, come è cresciuta, come è diventato il caso dell'anno

Il primo a dimettersi, travolto dallo scandalo Panama Papers, è il premier islandese David Gunnlaugsson. Lui e la moglie avrebbero usato una società offshore per nascondere ricchezze milionarie. La diffusione dei Panama Papers usciti dallo studio legale Mossack Fonseca e diffusi dai media internazionali, ha tolto il sonno a molte persone in tutto il mondo. I documenti riguardano più di 200 mila società offshore intestate a leader internazionali, teste coronate e parenti con il sangue blu, vip, calciatori e artisti di tutti i tipi. E nuovi nomi continuano a venir fuori.

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Vuoi far parte di Promethus? È stato l’invito di The International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) a partecipare all’inchiesta Panama Papers, che cresce ogni giorno di più, e che sta facendo tremare molti personaggi in tutto il mondo. Alessia Cerantola è una delle giornaliste italiane, tra le quasi 380 di 76 Paesi, che ci ha lavorato.

È una giornalista freelance, co-fondatrice e reporter del IRPI (Investigative Reporting Project Italy) il centro di giornalismo d’inchiesta italiano e del webnotiziario Radio Bullets. Si è sempre occupata dell’Estremo Oriente e di problemi legati alla libertà di stampa e dal 2007 i suoi articoli dall’Italia, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti sono stati pubblicati su Internazionale, l’European Journalism Center, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Il Fatto Quotidiano, ANSA, Sky, NHK, BBC World Service. Finora ha ricevuto otto premi e menzioni speciali, incluso il premio per la Libertà di Stampa 2012 da Reporter Senza Frontiere e UNESCO.

Come è iniziata l'inchiesta?
Il giornale tedesco di Monaco di Baviera Suddeutsche Zeitung ha ricevuto da una fonte anonima un file enorme con le le informazioni sullo studio legale Mossack e Fonseca (MF) di Panama, il più grande centro del mondo per le società offshore. Questo file è stato condiviso dal giornale con il consorzio americano ICIJ ( The International Consortium of Investigative Journalists) che per poter esaminarne il contenuto ha iniziato a costruire una redazione di giornalisti sparsi in tutto il mondo. Una specie di redazione virtuale sparsa in tutti i continenti, che ha lavorato per un anno in perfetta sintonia e sinergia.

Come sei entrata nel gruppo?
Sono stata contattata a far parte di Promethus direttamente da The International Consortium of Investigative Journalists, del quale è partner editoriale anche il gruppo editorale L’Espresso, per occuparmi con la collega Scilla Alecci che vive a New York, principalmente della sezione giapponese. Il nome del progetto fa riferimento all'eroe greco simbolo della ribellione. Sapevamo che rispondendo si, ci sarebbero aspettati mesi di lavoro durissimi, ma l'abbiamo accettato con entusiasmo e anche con un pochino di preoccupazione, onorate e orgogliose per la grande opportunità che ci veniva offerta.

Quali sono state le difficoltà iniziali?
Pur avendo alle spalle un master in finanza aziendale, non è stato facile capire i meccanismi dei paradisi fiscali, in particolare il sistema fiscale giapponese. Abbiamo dovuto studiare e documentarci molto, soprattutto tra siti in giapponese. I documenti del leak erano molti e molto complessi e, nel caso giapponese, la verifica dei nomi era resa più complicata dalla mancanza dei caratteri di scrittura giapponese che permettono di togliere le ambiguità di alcuni nomi.  

Come avete superato il problema fusi orari per restare in contatto? 
Fino a gennaio si trattava di organizzare le riunioni in corrispondenza con il fuso di New York, dove vive Scilla e di Washington dove ha sede l’ICIJ. Da febbraio sono entrati anche i partner editoriali giapponesi, Asahi Shimbun e l'agenzia Kyodo News, per cui i fusi da gestire sono diventati tre. E per diverse settimane le riunioni capitavano alla mezzanotte e poi all'una della domenica, fino alle prime ore del lunedì notte o mattina. Diciamo che il fuso europeo non è stato quello più fortunato in questi incontri e che a volte le ore di sonno sono state davvero poche. Per fortuna, ICIJ ha creato un sistema informatico per la gestione delle informazioni, una sorta di redazione virtuale, sempre presente e pronta a rispondere ai quasi 400 giornalisti che partecipavano all’inchiesta. Abbiamo sempre condiviso tutte le informazioni che man mano trovavamo, abbiamo cercato insieme eventuali connessioni o trovato i pezzi di puzzle dove mancavano dei dati.  

E ora?
Siamo preparati a tutti i tipi di reazione e non possiamo e dobbiamo escludere nulla. Alcuni giornalisti stranieri hanno già ricevuto intimidazioni, ma i modi per “impolverare” il lavoro fatto in questi mesi da quasi 400 giornalisti di tutto il mondo, possono essere tanti e anche molto raffinati, come i tentativi di delegittimazione, che leggiamo in giro nel web o sentiamo in tivù. Ma bisogna capire da che cosa sono generati, quali timori o interessi ci sono dietro. E sono da verificare, proprio come i leak. Comunque, i giornalisti che hanno collaborato all’inchiesta Panama Papers non sono stati pagati dalla Cia o da altri servizi segreti, né hanno fatto questo lavoro per screditare stati o persone importanti. Abbiamo fatto il nostro lavoro di giornalisti, che fanno indagini e informano, e al di là dei commenti e delle opinioni, sarà la magistratura a decidere se le persone che hanno creato conti e società a Panama hanno commessi reati.

L'inchiesta Panama Papers è la prima di una serie?
​Per ora è l'ultima di una lunga serie di ICIJ, preceduta da Offshoreleaks, SwissLeaks o LuxLeaks. E tante altre.

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Gianna Melis