La ragazza americana nelle mani dell'Isis
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La ragazza americana nelle mani dell'Isis

È prigioniera da un anno e mezzo: Barack Obama ha detto che gli Usa stanno facendo di tutto per salvarla

Il suo nome non è conosciuto. La famiglia ha chiesto che non venisse divulgato. Per aiutarla a uscire dall'incubo in cui si trova. Ventisei anni, americana, operatrice umanitaria in Siria, si occupava dei profughi di quella guerra, specialmente dei bambini rimasti orfani. Poi è stata rapita dall'isis. La ragazza è nelle mani dei miliziani islamici da tempo, da un anno e mezzo.

Del rapimento si è saputo la scorsa estate. Le autorità americane l'avevano tenuto segreto. Troppa pubblicità è il modo peggiore per salvare la vita dell'ostaggio. Per mesi e mesi, la sua sorte è rimasta sconosciuta, anche quando l'Isis ha iniziato a uccidere gli altri prigionieri americani. Ora, torna alla ribalta grazie a un'intervista di Barack Obama alla Nbc. Il presidente ha detto che gli Usa stanno facendo di tutto per salvare la sua vita.

La richiesta di riscatto

In agosto era venuto fuori che gli islamici avevano chiesto 6 milioni di dollari per il suo rilascio e la scarcerazione di Aafia Siddiqui, Lady Al Qaeda, come è stata soprannominata questa donna pachistana, laureata al Mit in scienze neurologiche, condannata a 86 anni negli Stati Uniti per aver tentato di uccidere i funzionari americani che la interrogavano nella prigione di Bagram in Afghanistan.

Il suo nome era rientrato anche nella trattativa per liberare James Foley, il giornalista statunitense poi decapitato dall'Isis. Ma Washington segue la linea dura sui riscatti. Non si pagano. Non l'ha fatto per nessuno degli ostaggi, non lo farà neppure per la ventiseienne prigioniera degli islamici.

I blitz falliti

Per salvare la vita degli ostaggi, finora la Casa Bianca ha seguito la linea dei blitz militari.  Forse Obama si riferiva a quello durante l'intervista. Ma è sempre andata male. La scorsa estate, il Pentagono aveva rivelato di aver tentato di liberare proprio Foley. La sfortunata operazion era stata condotta dai soldati delle Special Operation Forces che erano atterrati in una località del territorio siriano controllata dall'Isis e che dopo aver affrontato uno scontro a fuoco con i miliziani, erano ripartiti quando avevano scoperto che gli ostaggi che cercavano non erano lì.

In Yemen, nello scorso dicembre, un altro fallimento. Luke Sommers, un giornalista in mano ad Al Qaeda da un anno circa, era rimasto ucciso durante il blitz delle forze speciali Usa. Un bilancio molto negativo. Un altro errore non sarebbe perdonato dalll'opinione pubblica.

Il ruolo dei paesi del Golfo

Le parole di Obama fanno però pensare a un'urgenza ? E'vero che l'Isis ha sequestrato, violentato, reso schiave e poi ucciso decine e decine di donne in Iraq e Siria ed è vero che si è appena conclusa tragicamente la vicenda degli ostaggi giapponesi, ma non è detto che il destino della ragazza americana sia segnato. E'possibile che i miliziani ci pensino due volte prima di mettere in piedi una orribile messinscena come fatto con gli altri ostaggi. Le donne occidentali rapite in Siria, benchè spesso maltrattate non sono mai state uccise. E un video con la decapitazione di una giovane donna potrebbe essere controproducente per la causa dei miliziani.

C'è poi la possibilità che vengano seguiti altri canali per riaverla libera, come i paesi del Golfo. Il Qatar, per esempio, ha contatti con i gruppi islamisti  in Siria. E'stato grazie a una sua mediazione che qualche mese fa Peter Theo Curtis, un giornalista, americano è stato liberato. E'vero che era nelle mani di Al Nusra, la formazione meno radicale, ma è anche vero che non era per nulla scontato il lieto fine della sua avventura siriana.

Se poi fosse uno dei paesi del Golfo a pagare il riscatto, il governo americano non ci perderebbe la faccia e non verrebbe meno neppure la sua linea di fermezza. Per ora, però, quello che sappiamo è che la giovane americana è nella mani dell'Isis da più di un anno e che Obama ha promesso che farà di tutto per riportarla a casa.


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Michele Zurleni

Giornalista, ha una bandiera Usa sulla scrivania. Simbolo di chi vuole guardare avanti, come fa Obama. Come hanno fatto molti suoi predecessori

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