Turchia vs Siria: le ragioni di un conflitto potenzialmente devastante
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Turchia vs Siria: le ragioni di un conflitto potenzialmente devastante

Continua a salire la tensione tra i due Paesi dopo la rappresaglia che  ha fatto seguito all'uccisione di cinque civili turchi da parte  dell'esercito di Damasco - Quali sono gli interessi della Turchia in Siria

La guerra civile in Siria rischia di diventare per Ankara “una trappola”, come già l’aveva definita il leader turco Recep Tayyip Erdogan. È vero che l’ennesimo “incidente” di frontiera provocato dai militari siriani ha portato alla morte di 5 innocenti in Turchia e che il Parlamento turco, su proposta di Erdogan, ha autorizzato in risposta e per un anno possibili azioni militari oltreconfine: un durissimo segnale politico, ma anche uno strumento normativo inevitabile dopo che colpi di mortaio sparati dalle forze siriane erano caduti su Akcacale, villaggio turco vicino alla frontiera, uccidendo una madre con i suoi tre figli (appena un’ora dopo, le forze di Ankara già aprivano il fuoco contro quelle siriane e in più bombardamenti da terra e dall’aria seminavano la morte tra i soldati del dittatore Bashar el-Assad). È anche vero, però, che nessuno ha interesse in questo momento a una escalation della tensione.

Lo scenario è di quelli che sulla carta possono innescare un vero conflitto regionale, se non globale. La Turchia è membro della Nato, legata agli altri Paesi dell’alleanza da Trattati che prevedono la mutua assistenza in caso di attacco. Inoltre, l’emergenza profughi dalla Siria pesa soprattutto sulla Turchia, con un flusso di disperati che non accenna ad arrestarsi.

La guerra civile che dura ormai da un anno e mezzo sembra non conoscer più limiti di spazio e crudeltà: travalica le frontiere, diventa crisi degli ostaggi con sequestri di pellegrini o combattenti tra i sunniti da un lato e gli sciiti-alawiti di Assad dall’altro, tra turchi, giordani, libanesi, perfino iraniani, e si propaga, seppure “timidamente”, nei Paesi confinanti a suon di colpi di mortaio. Con vittime civili e militari.

Fra l’altro, non è neppure il primo incidente. In aprile, due profughi siriani in un campo vicino al confine rimasero uccisi in un attacco dei siriani. Poi c’è stato il jet turco abbattuto (morti entrambi i piloti) perché entrato di poco e per poco nei cieli siriani. Già allora Erdogan disse che non avrebbe tollerato altre azioni di questo tipo e ordinò di rafforzare le regole d’ingaggio. Adesso il colpo di mortaio su Ackacale per il quale troppo lentamente, e soltanto dietro sollecitazione russa, Damasco ha ammesso le responsabilità, chiesto scusa e dichiarato che non si ripeterà più. Intanto, il vice-premier turco Besir Atalay fa sapere che “la Turchia non vuole la guerra”.

Non la vuole neppure la Nato, che non è pronta a farsi coinvolgere in un conflitto potenzialmente devastante per tutto il Medio Oriente. E non la vogliono gli Stati Uniti, anche se Obama ripete che “Assad se ne deve andare, non può continuare questo massacro”, mentre l’Unione Europa, ma anche l’Iran e la Russia, lanciano appelli alla moderazione.

La realtà è che mentre partono colpi di mortaio nelle zone di confine in cui più forti sono gli scontri tra ribelli e lealisti, ad Aleppo si combatte una battaglia lunga e sanguinosa, nella quale purtroppo l’arma più temibile e inquietante, a riprova delle pesanti infiltrazioni alqaediste e terroriste tra i ribelli, sono i kamikaze e le autobomba: un continuo di esplosioni, specie nei luoghi di ritrovo e di raduno dei soldati governativi siriani. Veri atti di guerriglia terroristica condotti con gli strumenti che furono di Osama e che dimostrano come ad Aleppo siano entrati in azione gruppi che provengono da lontano.

Non è un mistero che la Turchia appoggi gli insorti, per quanto Ankara non intenda farsi trascinare in un confronto solo bilaterale con Damasco. Ed è sotto gli occhi di tutti l’impotenza delle Nazioni Unite, frenate in qualsiasi decisione di corridoio umanitario o ulteriori misure contro la Siria e Assad per via dei veti ricorrenti russo e cinese.

Una situazione di stallo in cui a nessuno, proprio a nessuno, conviene un maggiore impegno militare per chiudere la partita, né una pace che dovrebbe corrispondere a una stabilizzazione sul terreno mentre non c’è vincitore né vinto, Assad resta aggrappato al suo posto, la rivolta s’incancrenisce e i vicini stanno a guardare, rimediando ogni tanto una accelerazione dell’esodo o una salva di colpi di mortaio che obbligano a risposte le meno dirompenti possibili.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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