Israele, gli ostacoli che impediscono la pace
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Israele, gli ostacoli che impediscono la pace

Il controllo dei luoghi sacri, le tasse doganali, la continuità della West Bank, i profughi, le colonie: i nodi che rendono impossibile il negoziato

La continuità territoriale di Gaza e Cisgiordania

Militanti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina

MAHMUD HAMS/AFP/Getty Images

Complice la guerra civile deflagrata a Gaza nel 2005, la Striscia - uno dei posti più popolati al mondo - è oggi una terra di nessuno blindata, cui è impossibile accedere se non con il beneplacito di Israele (che controlla le frontiere) oppure, clandestinamente, tramite i tunnel sotterranei con l'Egitto, in parte distrutti nell'ultima operazione militare di Tel Aviv, da cui passano anche le armi usate dai miliziani di Hamas. Circondata da recinzioni di filo con pali, sensori e zone cuscinetto lungo i terreni confinanti con Israele e in muri di acciaio o calcestruzzo sui terreni confinanti con l'Egitto, Gaza è completamente isolata anche dalla Cisgiordania: una delle rivendicazioni storiche dei negoziatori palestinesi è sempre stata quella di costruire un corridoio di 44 km tra il valico di Eretz nella striscia  e il valico di Tarqumiyah, nei pressi di Hebron in Cisgiordania. La fine del processo di pace, alla fine degli anni 90, e la guerra civile intrapalestinese, ha azzerato quell'ipotesi, lasciando quasi due milioni di persone alla mercè dei miliziani e anche delle dure politiche di sicurezza di Israele. Oggi, però, non solo Gaza e Cisgiordania sono due entità completamente autonome, ma la stessa West Bank - divisa dagli accordi di Oslo in una zona A a pieno controllo palestinese sul 17% del territorio cisgiordano, una zona B a controllo congiunto israelo-palestinese sul 24% della terra e una zona C a pieno controllo israeliano sul 59% del territorio cisgiordano - è un bantustan dove è difficile muoversi o andare a lavorare. La grande espansione delle colonie nella West Bank ha spezzettato il territorio, disseminandolo di posti di blocco e militari che rendono impossibile la vita ai palestinesi.

Lo status di Gerusalemme

Un poliziotto cerca di fermare un ultra-ortodosso che vuole impedire a un gruppo di donne di pregare

EPA/ABIR SULTAN

Tre volte santa, venerata da musulmana, cristiani e ebrei, la Città Vecchia di Gerusalemme e le sue mura, considerate patrimonio dell'umanità dall'Unesco e controllate militarmente da Tel Aviv, racchiudono in meno di un chilometro quadrato molti luoghi di grande significato religioso come il Monte del Tempio, il Muro del pianto, la Basilica del Santo Sepolcro, la Cupola della Roccia, la Moschea al-Aqsa. Occupata da Israele nel 1967, proclamata unilateralmente capitale dello Stato ebraico, Gerusalemme è oggi il punto di caduta simbolico e politico di tutte le tensioni territoriali, politiche e religiose tra i due popoli. È qui che è partita la seconda Intifada degli uomini bomba. È qui che potrebbe partire la terza. È sulla status di Gerusalemme, su chi abbia diritto al controllo dei luoghi sacri, che già nel 1999 deflagrò il processo di pace Arafat-Barak a Camp David.

La smilitarizzazione delle milizie

Militanti palestinesi delle forze armate di Hamas

ANSA /EPA /M.Saber

Quando si parla del processo di pace, uno degli ostacoli principali a che i leader dei due popoli comincino a sedersi al tavolo, è quello della smilitarizzazione delle milizie palestinesi e della capacità dell'Autorità Nazionale Palestinese di riprendere il controllo del territorio, impedendo attacchi con i Qassam o con azioni terroristiche. Gli israeliani e anche gli americani sostengono, non senza ragioni, che finché gli uomini dell'Anp non riprendono il controllo della Striscia, qualsiasi passo avanti nella direzione del dialogo risulta vana. I palestinesi ribattono, anche loro con qualche ragione, che la divisione del popolo palestinese, la spaccatura tra Hamas e Al Fatah è stato un risultato scientificamente perseguito da Tel Aviv da almeno quindici anni, dacché cioé è saltato il processo di pace. Il risultato è che oggi nessuna organizzazione palestinese, pena l'impopolarità, può permettersi il lusso di consegnare le armi, anche perché la Striscia di Gaza, stabilmente sotto embargo, ha ormai un'economia tutta fondata sul traffico illegale di armi e sugli aiuti. C'è poi un'altra domanda: a chi spetta il diritto di raccogliere i fondi umanitari destinati a Gaza o alla Cisgiordania? A Israele, come oggi? E le tasse doganali? A Israele, come oggi? Sono questi alcuni nodi di qualsiasi negoziato.

La colonizzazione dei Territori

Un prigioniero palestinese liberato viene accolto dalla sua gente all'arrivo al valico di Erez

EPA/ALI ALI

Nonostante il ritiro da Gaza nel 2005 deciso da Sharon, il processo di colonizzazione e di costruzione di nuovi insediamenti ebraici nei Territori e a Gerusalemme est è uno dei principali ostacoli, come sanno bene gli americani, alla ripresa del negoziati. La colonizzazione - sostenuta da Tel Aviv con facilitazioni fiscali e prestiti al fine anche di vincere la battagla demografica contro i palestinesi - non solo ha quasi irrimediabilmente leso la continuità dei Territori occupati, ma costituisce un grosso problema di sicurezza per la stessa Israele, costretta a spendere fiumi di denaro per difendere le nuove colonie in territorio ostile. Senza distinguere tra insediamenti nuovi o ripristinati (Hebron o Gush Etzion), il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite hanno condannato più volte Israele per la costruzione e l'ampliamento delle colonie

I profughi palestinesi

Una famiglia palestinese lascia Gaza con un carretto

EPA/OLIVER WEIKEN

Storico nodo di tutti i negoziati, fin dal 1948, sono circa quattro milioni (quanti i palestinesi che vivono nei Territori occupati) i profughi palestinesi che vivono, dopo essere stati espulsi, negli Stati confinanti confinanti, dalla Siria al Libano, dalla Tunisia alla alla Giordania. Benché nessun governo israeliano possa accettare tout court il diritto al ritorno, pena la fine del carattere ebraico dello Stato, i profughi sono una bandiera da usare nei negoziati per far saltare le trattative, un straordinaria arma di propaganda palestinese, una annosa questione che si trascina senza soluzioni da cinquant'anni, costituendo anche un problema di sicurezza per gli Stati confinanti, come dimostra il massacro del settembre nero del 1970 compiuto contro i campi profughi palestinesi in Giordania ad opera delle truppe del re Hussein.

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Paolo Papi