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YASUYOSHI CHIBA/AFP/Getty Images
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Cala il sipario su Luis Inacio Lula Da Silva

Secondo i giudici l'ex presidente era il garante del sistema di corruzione Petrobas: un'accusa che, per l'ex sindacalista, significa che non potrà più candidarsi alle presidenziali

Quello che ha detto Deltan Dallagnol, il pubblico ministero  dell'inchiesta Lava Jato sui fondi neri di Petrobras che sarebbero serviti al colosso petrolifero pubblico di Rio de Janeiro per mettere in piedi un vorticoso giro di tangenti di cui avrebbero beneficiato anche decine di parlamentari brasiliani, non è soltanto un j'accuse giudiziario contro quelli che ha definito i «governi della tangentocrazia».

È un vero e proprio atto di accusa formale (e politico) contro l'uomo che ha rappresentanto, più di tutti, nell'ultimo decennio, il miracolo brasiliano nel mondo: quell'Luis Inacio Lula Da Silva che ha governato il Paese dal 2003 al 2011, divenuto nelle parole del pm  «il grande generale che comandò la realizzazione e la pratica dei reati», il «comandante massimo» dello schema di corruzione volto a sviare denaro pubblico (Petrobras e commesse statali) per garantire alla rete dei corrotti arricchimento illecito, l'acquisto dei voti di parlamentari di altri partiti e per finanziare le campagne elettorali del Partito dei Lavoratori e dei suoi alleati di governo. 

Sarà il giudice Sergio Moro a decidere se rinviare a giudizio l'ex presidente e gli altri accusati - tra cui la moglie Marisa e il presidente dell'Istituto Lula, la sua Fondazione, Paulo Okamoto - oppure optare per l'archiviazione. Nel primo caso l'ex operaio-presidente - accusato anche di aver ristrutturato con fondi illeciti un appartamento sul mare a Guaruja - non potrebbe più ricandidarsi alla guida del Paese nel 2018, come aveva annunciato di voler fare dopo le dimissioni forzate della sua amica e compagna di tante battaglia Dilma Rousseff.

Ancora molto amato in Brasile, capace di costruire una rete di consenso molto vasta tra i poveri e pezzi della classe media brasiliana, Lula rischia di osservare da un'aula di giustizia il tramonta di un'epoca che - qualunque sia il giudizio sui suoi dieci anni di governo - ha rappresentato per il Brasile un periodo di crescita economica (e di redistribuzione) ininterrotta e sostenuta (4-5% annuo), in un quadro politico caratterizzato per due lustri da una sostanziale e inedita stabilità istituzionale.

Quello che appare certo è che la sinistra brasiliana e il Partito dei Lavoratori rimarrebbero - qualora Lula non potesse candidarsi alle presidenziali del 2018 - senza il leader, il padre fondatore, l'uomo che - con la sua narrazione sul compagno sindacalista divenuto presidente - ha saputo per un lungo periodo raccogliere sotto la propria ala milioni di lavoratori sindacalizzati e decine di migliaia di ex oppositori delle giunte militari brasiliane.

Dopo il contestatissimo impeachment di Dilma Rousseff e l'arrivo al potere del suo ex vice e leader del grande partito centrista Pmdb,  quella che attende il Brasile non assomiglia, secondo molti analisti e commentatori brasiliani, a una nuova alba del Paese illuminata da una classe politica nuova e non corrotta. Assomiglia semmai a una straordinaria operazione trasformistica, dove gli ex soci moderati (e altrettanto chiacchierati) del PT,  raccogliendo il desiderio di revanche della storica destra brasiliana, giungono al potere senza colpo ferire grazie a un'inchiesta giudiziaria che è stata il vero motore del cambiamento politico in atto e delle successive dimissioni della Rousseff. Il Brasile oggi è un Paese più spaccato che mai, con scontri e violenze tra i militanti della sinistra e degli altri partiti e la polizia che si susseguono ormai ininterrottamente da mesi.

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