Perse la famiglia a Ustica: 'Questi soldi, le mie lacrime'
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Perse la famiglia a Ustica: 'Questi soldi, le mie lacrime'

Pasquale Diodato parla dopo la sentenza della Cassazione che ha ordinato il risarcimento ai parenti delle vittime - Ustica: la Storia - Le foto -

Pasquale Diodato oggi ha 75 anni e da 33 porta solo cravatte nere. Il 27 giugno 1980 ha perso nella strage di Ustica più cari di chiunque altro: sua moglie Giovanna di 32 anni, tre figli piccoli di 1, 7 e 10 anni e sua cognata.

Tra gli 81 passeggeri a bordo del Dc 9 della compagnia aerea Itavia, decollato da Bologna alle 20:08  diretto a Palermo e precipitato alle 20:59 mentre sorvolava il tratto di mare tra Ponza e Ustica, c'erano anche loro.

Da 33 anni Pasquale Diodato, come gli altri parenti delle vittime, aspetta di conoscere la verità, di sapere chi ha causato la strage, chi l'ha coperta, chi ha depistato le indagini.

Oggi la sentenza dei giudici della Cassazione civile stabilisce, per la prima volta, che ad abbattere il Dc9 è stato un missile e non, come in passato si era ipotizzato un cedimento strutturale o una bomba a bordo. Una tesi, scrivono nelle motivazioni, “abbondantemente e congruamente motivata” e che obbliga i ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e Trasporti, giudicati colpevoli di non aver garantito la sicurezza in volo dei civili, coinvolti in uno scenario di guerra con una ventina di aerei militari di cui 12 identificati e gli altri no, a un risarcimento di 110 milioni di euro.

Certo che mi interessano quei soldi – risponde il signor Pasquale quando domandiamo se gli importa qualcosa di questi soldi – perché li ho pagati con le lacrime di sangue che ho versato in questi anni. Lo Stato è colpevole di aver permesso a dei civili di volare in un cielo dove era in corso una guerra tra aerei americani, francesi, libici. C'era un po' di tutto quella notte”.

Il giorno della tragedia la famiglia del signor Diodato doveva rientrare in Sicilia per le ferie estive. Pasquale avrebbe raggiunto i suoi cari una ventina di giorni dopo, una volta sbrigate alcune pratiche per le ditte bolognesi per cui lavorava.

La scuola era finita – racconta - io dovevo finire di pagare gli operai e chiudere le imprese così, per non tenere i bambini al caldo estivo di Bologna, li feci partire prima da soli”.

Appreso che era successo qualcosa all'aereo su cui viaggiava la sua famiglia, Pasquale si precipita all'aeroporto di Bologna. “Nessuno ci dava notizie precise, qualcuno iniziava a parlare di dirottamento e nel frattempo la mia ansia saliva. Allora, visto che da Bologna non partiva più niente, di notte ho raggiunto Pisa e da lì ho preso un volo per Palermo”.

Sebbene la stessa Cassazione in sede penale avallò l'ipotesi dell'ordigno a bordo, cancellando le accuse di omissioni, depistaggio e alto tradimento rivolte ai vertici dell'Aeronautica militare, anche Pasquale, come il giudice Rosario Priore che c'era arrivato da solo con le sue indagini e l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga che nel 2008 disse che ad abbattere il Dc9 sarebbe stato un missile lanciato da un aereo della Marina militare francese per uccidere il leader libico Gheddafi, non ha mai dubitato che la verità fosse un'altra, appunto quella del missile.

Ma quale bomba nella toilette! Era chiaro fin dall'inizio che si era trattato di un missile, solo lo Stato non l'ha voluto capire. Adesso però sappiamo che sono stati i francesi e chiedo al prossimo presidente del Consiglio di andare a bussare alle porte di Hollande per farsi dire tutto, che guerra c'era quella notte, chi è stato e perché”.

Se in quegli anni avesse avuto di fronte gli uomini dello Stato, Pasquale li avrebbe presi a schiaffi in faccia uno per uno. Nel suo siciliano stretto dice proprio così: “Cosa nel penso dello Stato? Schiaffi in faccia, uno per uno. Coprire una tragedia per 30 anni e depistare le indagini come è stato fatto è una delle vergogne più grandi del nostro Paese, forse la più grande”.

Accompagnato dalla seconda moglie e dal figlio avuto da lei, il 27 agosto di ogni anni Pasquale torna a Bologna per la cerimonia al Museo della Memoria e per ritrovarsi con gli altri parenti delle vittime. Ma non passa un Natale, una Pasqua, un compleanno che lui non trascorra l'intera giornata al cimitero.

Ho portato il lutto per sei anni e ho smesso solo perché mio figlio cominciava ad avere dei problemi, mi disegnava sempre tutto vestito di nero, soffriva e soffre ancora dei miei tic, dei disturbi, delle fobie che non mi hanno mai abbandonato. La cravatta però ce l'ho sempre nera”.

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Claudia Daconto