Lo spietato jobs act di Casa Renzi
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Lo spietato jobs act di Casa Renzi

Sfruttato, licenziato, mai risarcito. Ed Evans Omoigui, ex dipendente di una società di Tiziano Renzi, tenta il suicidio. L'inedita storia di una clamorosa ingiustizia

"Meno precari e più diritti": Matteo Renzi ha festeggiato la sua legge sul mercato del lavoro con l’usuale sloganistica. Ma sette anni fa un’azienda della sua famiglia, la Arturo, licenziava illegittimamente un dipendente extracomunitario che aveva chiesto i contributi. Sottopagato, sfruttato, senza diritti né futuro: il Jobs act di casa Renzi ha il volto sofferente e le spalle ingobbite di Evans Omoigui, oggi 42 anni, nigeriano di Benin City, in Italia dal 1996.

La sua storia spunta dagli archivi del Tribunale di Genova. E ha guadagnato, sia pur fugacemente e con anonimia, le cronache locali. Il 9 febbraio 2013 l’edizione genovese di Repubblica scrive di "lavoro nero". "Malato e truffato sale sulla gru" titola il quotidiano. L’occhiello spiega: "Vince la causa, ma il datore di lavoro non paga. E lui minaccia il suicidio".

L’imprenditore cui Repubblica fa riferimento, senza mai citarlo, è Tiziano Renzi, padre del futuro premier che in quel momento è sindaco di Firenze. E il disperato che vuole farla finita è Omoigui. "Sono tutti dei ladri! Adesso mi ammazzo" continua a gridare, mentre è in bilico a 30 metri d’altezza. Solo dopo essere stato messo in salvo svela il perché della sua protesta: "Renzi mi deve 90 mila euro".

Panorama ha tentato per settimane di rintracciare Omoigui. L’uomo però sembra sparito nel nulla. Simona Nicatore, il suo ultimo avvocato, spiega: "In dicembre, dopo la morte di suo padre, è partito per la Nigeria. Era gravemente malato, viveva per strada, angosciato e incattivito. E pensava di aver ricevuto un torto enorme: non riusciva a darsi pace. Sarebbe dovuto rimanere nel suo Paese qualche settimana, ma non è più tornato. Ora spero solo che stia bene".

Quella di Omoigui è una storia di ordinaria ingiustizia. Viene assunto per un anno dalla Arturo srl di Tiziano Renzi il 7 febbraio 2007. Ma lo cacciano due mesi più tardi, il 13 aprile 2007, dopo che l’uomo aveva chiesto di essere messo in regola. Si batteva per i suoi diritti, nient’altro: così hanno stabilito i giudici. Eppure viene licenziato in tronco. Un sopruso che fa sprofondare Omoigui in un vortice: disoccupazione, depressione e malattia. Il poveretto si aggrappa alla speranza di avere giustizia. Così accade. Il 20 settembre 2011 la Arturo viene condannata dal Tribunale di Genova: dovrà risarcire l’ex dipendente con quasi 90 mila euro. Ma l’azienda, nonostante i solleciti, non liquiderà mai Omoigui.

La Arturo è un’azienda fondata a gennaio del 2003 da Renzi senior, che ne detiene il 90 per cento. Il resto è nelle mani di sua sorella Tiziana. A Genova, all’inizio del 2007, la società organizza i venditori porta a porta del quotidiano Secolo XIX. Il 7 febbraio 2007 Omoigui viene assunto come co.co.co. dalla Arturo. La «lettera d’intenti», destinata all’Ufficio immigrazione di Genova, annuncia «la disponibilità a sottoscrivere un contratto di collaborazione a progetto per lo svolgimento dell’attività di distribuzione di giornali quotidiani e materiale pubblicitario». Compenso pattuito: 750 euro al mese, per un anno. Il precontratto è firmato dall’amministratore: Tiziano Renzi.

Nonostante gli accordi, Omoigui viene mandato via due mesi dopo: il 13 aprile 2007. Per un motivo sideralmente lontano dalla «giusta causa» del Jobs act renziano: avere chiesto la regolarizzazione del rapporto e un compenso per pagare la benzina. Interrogato il 20 gennaio 2009 da Margherita Bossi, giudice del lavoro a Genova, Omoigui racconta: "Il giorno dopo la nostra protesta, il 13 aprile 2007, ho trovato i cancelli chiusi. Sono comunque riuscito a entrare e ho parlato con il nostro supervisore capo, Adeniji. Mi disse che non poteva più farmi lavorare. E che per chiarimenti dovevo rivolgermi al signor Tiziano Renzi, di Firenze".

La sua versione viene confermata in aula il 22 settembre 2009 da Mercy Omorodion, sua compagna nella vita e collega: "Quella notte c’ero anch’io perché lo avevo accompagnato" ricorda. «"Il mio fidanzato ha chiesto la regolarizzazione del rapporto. Ma un responsabile ha chiamato la Polizia. Evans allora è stato portato in Questura: lì ha reso delle dichiarazioni. Il giorno dopo non l’hanno fatto entrare: il cancello era chiuso". Un’identica testimonianza viene resa da un altro ex dipendente, Odion Salami, assunto con Omoigui: "Il rapporto di lavoro è finito dopo che i responsabili avevano fatto intervenire la Polizia, visto che chiedevamo un aumento" riferisce il 20 aprile 2010. "Il giorno seguente non ci hanno permesso di tornare in ditta. Il licenziamento ce l’ha comunicato un uomo di colore bianco, di cui non ricordo il nome". Il giudice gli chiede che orari faceva: "Da mezzanotte alle 6 del mattino, da lunedì a domenica. La paga era di 28 euro al giorno. E usavamo sempre la nostra macchina, senza alcun rimborso spese".

Omoigui, quindi, viene allontanato dal lavoro il 13 aprile 2007. I suoi avvocati inviano subito un tentativo di conciliazione all’azienda. Ma la Arturo non risponde. Intanto, il 20 marzo 2007, Tiziano Renzi ha ceduto la carica di amministratore al fotografo Pier Giovanni Spiteri: un nome che entra ed esce di frequente negli affari dei Renzi. E anche stavolta resta alla guida per pochi mesi. Nell’ottobre 2007 viene sostituito da Antonello Gabelli, indagato dalla Procura di Genova per la bancarotta fraudolenta della Chil, la più famosa società dei Renzi. Ci ha lavorato pure il premier: come fondatore, poi collaboratore e infine dirigente. I magistrati, il 20 marzo 2015, hanno poi chiesto l’archiviazione per Tiziano Renzi, amministratore della Chil fino al novembre 2010. Ora il giudice deve decidere.

Intanto, cinque anni fa, anche la Arturo, dopo la gestione Gabelli, comincia a essere smantellata. Il 18 aprile 2008 ritorna nelle mani del socio di maggioranza: papà Renzi. Che diventa il liquidatore dell’azienda. Poco più di due mesi dopo, il 2 luglio 2008, viene depositato il ricorso di Omoigui. Fissata la prima udienza, il 25 luglio l’ufficiale giudiziario bussa alla sede legale della società in via Giuseppe di Vittorio, a Rignano sull’Arno. Ed è proprio Tiziano Renzi a firmare l’avviso di ricevimento dell’atto.

Nemmeno tre mesi dopo, il 15 ottobre 2008, la Arturo viene cancellata dal registro delle imprese. Ma il processo va avanti. Il 20 settembre 2011 la società è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il licenziamento illegittimo di Omoigui: "Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso" scrive Bossi nella sentenza. Al nigeriano sono riconosciuti altri 3.947 euro: per differenze retributive e mancati riposi.

Quasi 90 mila euro, in totale. Che però l’uomo non vedrà mai, nonostante i continui solleciti dei suoi avvocati. Tiziano Renzi in aula non compare. Un comportamento stigmatizzato dal giudice Bossi: "I legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio, senza addurre alcuna giustificazione". Aggiunge il magistrato: "Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio". Una strategia legittima: la società era stata cancellata nonostante sapesse del processo pendente. Ma discutibile e imbarazzante sotto l’aspetto morale. Va ricordato che, all’epoca della sentenza, Matteo Renzi era già sindaco di Firenze.

Ma c’è un altro motivo che avrebbe imposto un diversocontegno. La Arturo aveva ottenuto un subappalto da un’altra impresa di casa Renzi: la Chil. Il legame di subordinazione emerge dal processo. Ne parla Giampaolo Grozio, un consulente che organizzava la diffusione del Secolo XIX. Al giudice Bossi, il 22 settembre 2009, spiega: «L’appalto era della Chil, per cui lavoravano alcune aziende che gestivano i dipendenti, tra cui la Arturo». Chil e Arturo hanno la stessa compagine azionaria (la famiglia del premier), lo stesso amministratore (Renzi senior), uguale business (la distribuzione del quotidiano). Difatti, come rivelato lo scorso ottobre da Panorama, anche la Chil sarà condannata, il 19 giugno 2013, sempre dal Tribunale di Genova, a risarcire altri due ex portatori di giornali. Che però, come Omoigui, non hanno mai visto il becco di un quattrino.

C’è un unico collaboratore che la Chil ha trattato con ogni riguardo: Matteo Renzi. Prima di diventare presidente della Provincia di Firenze nel 2004, viene promosso da co.co.co a dirigente. La sua retribuzione, come scoperto da Panorama, passa da 500 a 4.440 euro lordi al mese. Un aumento di cui la Chil s’è fatta carico per appena sette mesi. Dopo, i contributi previdenziali sono stati versati prima dalla Provincia e poi dal Comune di Firenze, dove nel 2009 Matteo viene eletto sindaco.

Così, in dieci anni, il futuro premier ha accumulato un vero tesoretto previdenziale: 200 mila euro. Cui ha rinunciato solo da presidente del Consiglio viste le polemiche. Lui sì che stato antesignano di uno dei cardini della riforma del mercato del lavoro: le tutele crescenti. A spese dello Stato, però.

Dunque la Arturo e la Chil sono le due facce della stessa medaglia: il Jobs act di casa Renzi. Ed Evans Omoigui, nigeriano di Benin City, in Italia dal 1996, è solo una delle vittime. All’inizio del 2013, quando ancora aspetta quei 90 mila euro che potrebbero raddrizzare la sua vita, gli dicono che il tempo è scaduto: un decreto di espulsione pende sulla sua testa. Deve rimpatriare: malato, disoccupato, raggirato, senza casa. E Omoigui non regge. Il 9 febbraio 2013, poco dopo mezzogiorno, sorpassa il Museo del mare di Genova e imbocca via Rubattino. Ha già in mente che cosa fare: oltrepassa il cancello di un cantiere, si arrampica su una gru alta 30 metri e sale sul braccio di metallo. Minaccia di buttarsi nel vuoto.

Appena viene notato, scatta l’allarme. Arrivano Polizia e Vigili del fuoco, che gonfiano un enorme materasso ai piedi della gru. Alcuni agenti, intanto, salgono sul tetto del palazzo accanto. Parlano con l’uomo. Cercano di farlo rinsavire. Ma tutto sembra inutile: Omoigui vuole farla finita davvero. Continua a farfugliare confuso: «Il padre del sindaco di Firenze mi deve 90 mila euro. Non ce la faccio più. Voglio morire».

Solo dopo tre ore di panico e trattative Omoigui decide di scendere. Appena le sue sfondate sneacker toccano terra, viene circondato dagli altri poliziotti. Stringe tra le mani alcuni fogli: è la sentenza che gli riconosce il risarcimento. "Ecco, guardate, non dico bugie" dice nel suo malfermo italiano. "Leggete: 90 mila euro. Ma non c’è giustizia, qui in Italia?".

L’uomo viene portato in Questura. L’avvocato Alessandra Ballerini si adopera per fargli avere il rinnovo del permesso di soggiorno. Il legale ricorda: «Continuava a parlare del “vostro futuro premier”. Non sopportava che persone tanto potenti potessero commettere tali iniquità». La Questura prende a cuore il caso di quest’uomo abbandonato da tutti. Il nigeriano ottiene di rimanere in Italia per «motivi umanitari»: un visto concesso in pochissimi casi. Ma la sua vita ormai è in frantumi. A Genova continua a vagare tra ospedali e cliniche: San Martino, Galliera, Villa Scassi. Un incidente sul lavoro lo ha quasi paralizzato. Le sue cartelle cliniche sembrano bollettini di guerra: parestesie, ernie, vertebre schiacciate, lordosi, artrosi. Omoigui si rivolge anche a un sindacato: "È venuto tre o quattro volte" ricorda Carlo De Caro, a Genova coordinatore del Sindacato di base: "Mi parlava di questa società di Renzi. Era sempre più insofferente. Si sentiva fregato da tutti".

Evans continua a girovagare sconfortato per la città: un altro impiego, nelle sue condizioni, pare impossibile. Chiama l’avvocato Nicatore, sperando in buone nuove. Ma il risarcimento è un’ombra che si allunga sempre di più. Fino a scomparire. Come ha fatto lui, qualche giorno prima dello scorso Natale. "Non lo vediamo da mesi" si lascia sfuggire uno sdentato barbone davanti all’ultimo domicilio di Omoigui, sotto i portici di piazza Montano di fronte alla stazione ferroviaria di Sanpierdarena. Notti passate accucciato nei cartoni, tra alcool e antidolorifici. Fino a quando Evans non si è dileguato, dopo aver chiesto per l’ennesima volta: "Perché in Italia non c’è giustizia?".

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Antonio Rossitto