"Sfregiato a vita per l'accanimento dei magistrati"
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"Sfregiato a vita per l'accanimento dei magistrati"

Intervista ad Andrea Bulgarella, accusato di essere "il referente del boss Messina Denaro", prosciolto da ogni accusa

La storia dell’umanità si fonda sull’errore giudiziario. «Gesù Cristo venne accusato con le prove false e inconsistenti del sinedrio…».

Erano inconsistenti le prove raccolte dalla procura di Firenze contro di lei? «Erano le prove della mia innocenza anziché della mia colpevolezza. Il Tribunale del Riesame ha prima smontato l’indagine, il sostituto procuratore di Cassazione ha poi capovolto l’ipotesi di reato nel manifesto della mia integrità». Nel suo caso la giustizia si è ricreduta? «Ha dimostrato che si può scongiurare ma non riparare l’errore. Più grave di condannare un innocente è indicarlo come colpevole. Da quel momento si farà a gara per evitarlo e dimenticarlo. Oggi per me il sonno ha preso il posto del sogno».

Andrea Bulgarella è nato a Erice in provincia di Trapani: «Ma in realtà ho passato la mia adolescenza in un collegio a Vercelli». È un imprenditore del settore alberghiero e dell’edilizia. Costruivano i suo avi: «Solo opere pubbliche». Ha continuato pure lui: «Solo edifici privati». Negli anni ’90 si è trasferito dalla Sicilia in Toscana, a Pisa: «Ho costruito, ho dato lavoro, mi sono esposto con le banche». Il 5 ottobre 2015, la Dda della procura di Firenze lo ha indagato per truffa e riciclaggio con l’aggravante ignobile e infamante di mafia. Insieme a lui altri dieci sono stati coinvolti nell’inchiesta, tra questi il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. In pratica, per i pm della Dda di Firenze, Bulgarella, avrebbe impiegato e investito il denaro del superlatitante Matteo Messina Denaro. Per il Tribunale del Riesame non è affatto vero. Per il sostituto procuratore generale della Cassazione neppure. Per entrambi, Bulgarella, è stato piuttosto vittima di un abbaglio della ragione prima ancora che della giustizia.

Nei giorni dell’inchiesta, i giornali hanno gareggiato per calpestare Bulgarella e colpire Palenzona con il solito “trattamento” fatto di sentenze inappellabili ma di parte come sempre sono le tesi dell’accusa. Al sospetto giudiziario è insomma seguita la sospensione e la mattanza delle garanzie sancite dal diritto.

Con un provvedimento asciutto e stringato, il Tribunale del Riesame di Firenze ha ribaltato un’indagine distesa e imponente, «erano ottomila pagine», della Dda perché, così ha scritto il presidente Livio Genovese, «la conclusione non può, dunque, che essere nel senso della non sussistenza del fumus del reato di truffa e di quello per associazione a delinquere evidenziato». Ma più sorprendente è stata certo la requisitoria (inutile cercare sui siti o sui quotidiani che allora marchiarono Bulgarella come “l’uomo di Messina Denaro”) del sostituto procuratore generale di Cassazione, Ciro Angelillis, dello scorso 5 marzo, che ha preso le parti dell’accusato ed è entrato nel merito come raramente avviene: «L’ipotesi accusatoria appare talmente in contrasto con le emergenze procedimentali da non poter essere neanche ipotizzata in astratto». È stato un paradosso: un magistrato d’accusa ha demolito l’accusa.

Per il critico d’arte Vittorio Sgarbi, Bulgarella, è il Johann Winckelmann del recupero edilizio: 3000 dipendenti occupati, oltre 50 gli alberghi ri-costruiti dal Veneto alla Sicilia. Uno di questi è l’hotel Palazzo di Livorno che è considerato stupore del mondo. È l’hotel che più ama l’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Ed è tra le stanze di questo albergo che Guglielmo Marconi si è inventato il radar. Voleva salvare suo nipote, partito per la guerra, e così confondere il nemico.

Anche lei è andato via dalla Sicilia per confondere?

Me ne sono andato dalla Sicilia perché non accettavo il sistema infetto che dominava l’edilizia pubblica. Era impossibile fare impresa. Me ne sono andato per non impazzire. Prima di andarmene, malgrado tutto, ho ricostruito l’intero centro storico di Trapani: bagli, tonnare e saline… Dove gli altri credevano ci fosse una rovina io rammendavo. I nobili dismettevano ed io acquistavo. Tutti hanno puntato sul mio fallimento. Perfino mio padre. Cominciai da solo e con le mie forze.

Pure sul lago di Misurina in Veneto, dove ha costruito il Grand Hotel Misurina, la sua fortuna si deve solo alla decadenza della nobiltà?

Si deve all’inconcludenza di chi aveva lasciato che quella terrazza delle Dolomiti si riducesse a un rudere sbriciolato. Per realizzare i lavori feci salire solo maestranze del Sud. Erano uomini di sole e sale ma accettarono, per seguire me, di lavorare tra silenzio e neve.

Balzac diceva che dietro ogni fortuna si cela un delitto. Chi c’è dietro la sua?

Dietro la mia fortuna ci sono i miei dipendenti che non ho mai licenziato e quei banchieri che mi hanno dato fiducia, che si innamoravano dei sogni che facevo da sveglio. Solo in un paese che considera il profitto un crimine, l’iniziativa privata una rapina, si può credere che la fortuna sia sempre un illecito e non il risultato di un’onesta fatica e, perché no, di un talento.

Per i magistrati le banche erano a sua disposizione a partire dall’Unicredit con il suo vicepresidente Palenzona.

Io le banche non solo le ho sfidate ma alle banche ho chiesto risarcimenti per i tassi di usura che mi hanno praticato. Pure i legali dell’Unicredit lo hanno ammesso: Bulgarella non era un nostro amico ma semmai un nemico.

Era riuscito ad afferrare l’inafferrabile Palenzona e sottometterlo?

Un’amicizia che non c’è mai stata e una conoscenza sibillina. Da lui non ho ricevuto favori. Mi dispiace soltanto che per me sia finito coinvolto in questa indagine.

L’accusa di mafia era una fantasia?

I magistrati della Dda sostenevano che reimpiegassi i capitali della mafia trapanese. E non solo questa accusa mi macchia e mi infanga, ma è contraria ai postulati della logica, come hanno fatto notare sia il Tribunale del Riesame che il sostituto procuratore generale della Cassazione. Mi chiedo: come potevo reimpiegare capitali se era alle banche che mi rivolgevo per avere capitali? Forse i pm erano abbagliati dalla mia origine siciliana che per un imprenditore è una colpa.

Esiste un reato di geografia?

Purtroppo essere siciliani è considerata un’aggravante antropologica.

Può un’indagine nascere solamente dal pregiudizio?

Può essere costruita con il furore e il turbamento. È quella che si chiama intuizione che a volte tradisce la lettera del diritto e devasta la giustizia. Può tenersi in piedi, ed io l’ho provato su di me, solo su congetture e speculazioni induttive, interpretazioni arbitrarie, testimonianze inverosimili, intercettazioni confuse.

Ancora. Dietro di lei c’è il clan mafioso di Messina Denaro?

Dietro di me, e dunque nel mio passato, c’è l’amicizia, e le cene, con il commissario Ninni Cassarà ucciso nel 1985 dalla mafia; gli abbracci con il prefetto di Trapani, Vito Colonna, l’unico a liberare gli appalti pubblici di quella città dalle irregolarità e dalla malversazione; la fraternità con l’ex superpoliziotto di Mazara del Vallo, e poi questore di Forlì e Piacenza, Rino Germanà, un eroe sopravvissuto per miracolo all’attentato organizzato proprio da Messina Denaro e Leoluca Bagarella. Insomma, c’è si la mafia ma quella che ho denunciato a Trapani e che risiedeva perfino dentro la procura. Sono io che negli anni ’90 ho fatto i nomi di periti chiamati dai magistrati di Trapani ma complici e contigui alla mafia. Ho denunciato gli uomini di Angelo Siino, il ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra, che avevano e hanno ancora rapporti con la Regione Sicilia. E non è solo solidarietà, ma vicinanza e tenerezza, quella che ho espresso a Teresa Principato, il pm che dà la caccia a Messina Denaro e che lavora a palazzo Adragna, sede della procura di Trapani, edificio di mia proprietà e che adesso è casa di magistrati.

A volte la mafia si è infiltrata nell’antimafia.

E io non a caso non l’ho mai esibita e di certo non me ne sono mai servito per ottenere incarichi, per condizionare appalti, o intraprendere carriere. Credevo che bastasse denunciare la mafia, e non con proclami vanitosi e superficiali ma con documenti ordinati e solidi. Eppure mai avrei creduto che dovessi proteggermi dai fascicoli monumentali ma deboli dell’antimafia, dai deliri di “bestie e macellai” che oggi sono testimoni di giustizia inattendibili e interessati. Sono i pentiti della sesta giornata, quelli che ritrovano improvvisamente la memoria per spargere la menzogna e dire ciò che è più utile dire per aggirare la pena.

Chi sono i suoi amici?

Sono i dipendenti che hanno pianto per me quando è iniziata questa indagine, il sindacalista della Cgil di Trapani che mi ha difeso con una lettera aperta.

Come li ha assunti i suoi dipendenti, per segnalazione?

Per segnalazione, sì, ma delle forze dell’ordine. Sono figli di carabinieri e di uomini dello Stato.

Aveva l’ambizione di possedere tutti gli alberghi d’Italia?

La mia ambizione era quella di costruire l’hotel più bello del mondo. Lo avevo pensato a Roma, a piazza del Parlamento, poi sognavo di realizzarlo a Favignana. Ho sempre scelto, per costruire i miei alberghi, quei luoghi dove il sole tramontava. Era questa specificità che rendeva euforico Marcello Mastroianni. Fu per questo che decise, insieme a Giuseppe Tornatore, di scegliere il mio hotel di Makari, in provincia di Trapani, e girare il film “Stanno tutti bene”. Come per me, anche per lui era un luogo lieto. Ambizione? La mia non era l’ambizione della finanza ma la frenesia dell’ingegnere che progetta.

Questa indagine sarà la sua parabola da imprenditore?

Da uomo di cantiere mi sono sempre svegliato prestissimo ma adesso la notte è per me uno spazio senza confine. Mi metto in auto e attendo il giorno.

L’indagine è una prigione?

È sempre un rischio per chi fa il mio mestiere. E però, quando si attenta all’onorabilità dell’uomo, quell’uomo è solo.

I giornali non sono tribunali.

Ma possono essere bagni penali, formidabili strumenti di tortura. E non ce l’ho con i giornalisti che incollano le accuse e tagliano gli accusati. Tuttavia rifletto su come si possa sfigurare un uomo. Quando finirà questa mia storia giudiziaria, voglio costituire una fondazione per le vittime della cattiva giustizia, per gli imprenditori travolti dall’errore giudiziario.

Non vuole salvarsi e salvare l’azienda dal crollo?

Quella indagine è come un tatuaggio. Non si toglie. Ho deciso. A giugno lascerò l’impresa ai miei dipendenti. Venderò tutto, se sarà necessario, per completare le costruzioni ancora da finire. Lascio la Toscana e Pisa. La città non mi ha difeso salvo adesso dopo i provvedimenti del Riesame e della Cassazione. Voglio ritirarmi in solitudine.

Costruire è una maledizione?

In questo paese si preferisce istruire processi che costruire edifici.


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Carmelo Caruso