Piccoli negozianti: "Lottiamo per sopravvivere"
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Piccoli negozianti: "Lottiamo per sopravvivere"

Negli ultimi 3 anni hanno chiuso al ritmo di 180 al giorno.

Piccoli negozianti che resistono. Oppure no. Secondo i calcoli della Confederazione dei commercianti lo scorso anno sono state costrette a chiudere, 105mila imprese, di cui 62.477 punti vendita al dettaglio, con un saldo negativo tra nuove attività e quelle cessate pari a oltre 18.648 mila unità. Le previsioni per il 2012 sono nere, si parla già di 150mila fallimenti. E i pochi che hanno ancora il coraggio di inaugurare un punto vendita rinunciano allo Champagne e brindano a Brachetto pregando che non gli vada di traverso.

Colpa della crisi economica che, tra caro-benzina, bollette sempre più salate e entrate ridotte all'osso, costringe le famiglie a ridimensionare le spese. Ma anche della concorrenza spietata di supermercati e centri commerciali che, aperti 12 ore al giorno, feste comprese, spuntano ovunque come funghi assestando il colpo di grazia ai piccoli commercianti a suon di sconti e offerte speciali.

Basta farsi un giro per strada per accorgersi che al posto della merceria ha aperto un call center, che l'alimentari di zona ha lasciato il posto alle chincaglierie cinesi e che dove prima c'era il barbiere adesso si trova tutto l'occorrente per servire in tavola maraq e baklava.

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Blandina Melina e sua cognata gestiscono da 25 anni una piccola macelleria in un quartiere di Roma dove, secondo Concommercio, nel 2011 hanno chiuso 7 mila negozi. “C'è tanta crisi, ma tanta tanta – racconta - la gente spende di meno, va sempre più spesso ai supermercati dove pur di risparmiare è disposta a rinunciare alla qualità che possiamo garantire noi”. Perché allora non abbassa un po' i prezzi anche lei? “Fatto. Non è per niente vero che qui si spende tanto di più”. Però di carne se ne mangia senz'altro di meno.  “Certo, se prima si il cliente acquistava un chilo, adesso mezzo e anche la scelta è variata. Macinato al posto della bistecca, pollo e coniglio al posto delle carni rosse”. E a fine mese, quando si fanno i conti, sono dolori: “Andiamo paro paro disparo in mano”. Traduzione: quello che entra esce quasi tutto.

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Anche Luciano Ocoa, originario del Perù riesce a far quadrare i conti “pelo pelo”. Un anno e mezzo fa ha aperto un calzolaio dove prima c'era un phone center. Ma non dovrebbe essere il contrario? “In effetti sì – sorride – però le ricariche del telefono le vendo ancora e ho lasciato la vecchia insegna sopra quella nuova”. Luciano non ripara solo le scarpe. In realtà vende un po' di tutto: dal lucido, ai lacci, ai plantari. Fa pure i doppioni delle chiavi e si definisce “mezzo calzolaio mezzo ferramenta”. “No no, gli affari non vanno tanto bene e ogni anno che passa è peggio. La gente viene qui sempre meno perché farsi riparare le scarpe gli costa ormai quasi quanto ricomprarsele nuove. Non valgono niente ma con 15 euro in saldo se le portano via e quando le rompono le buttano e ne prendono un paio nuovo”. Luciano paga 770 euro di affitto e non può permettersi dipendenti. Qualche volta ha pensato di chiudere e mollare tutto. Spera di avere il tempo per conquistarsi la fiducia della gente del quartiere. E nel frattempo prega. “Ho tanta fede e ogni giorno chiedo a Dio di mandarmi qualche cliente”.

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Donatella Giraldi da pochi mesi ha aperto insieme al figlio e alla nuora una nuova cartoleria. “Ne avevamo una più piccola 100 metri avanti, ma era un punto un po' nascosto e da quando, 15 anni, fa, hanno chiuso la scuola, la clientela è stata sempre più scarsa. Abbiamo resistito il più possibile perché non riuscivamo a trovare un'alternativa alla nostra portata. Poi finalmente abbiamo individuato questo spazio e ci stiamo riprovando”. A che prezzo? “1.050 euro di affitto al mese, spese attive escluse ovviamente”. Donatella non ha proprio idea di come potrà andare, “speriamo bene, ma la crisi c'è”. Perciò, via gli articoli da regalo “prima si vendevano bene, adesso facciamo fatica anche a dar via gli zaini. Per togliertelo dallo scaffale lo devi svendere”. Commesse nemmeno a parlarne, “facciamo tutto in famiglia, ci diamo i turni, ma non è semplice, è una lotta. Noi siamo ancora ottimisti e positivi ma se i soldi non ricominciano a girare qua si chiude. Nella via sono spriti negozi a grappoli. Cammini per strada e vedi le saracinesche giù”.

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Come quella del barbiere Salvatore, per 30 anni punto di riferimento per tutto il quartiere. “Mi è capitato anche di correre in ospedale per accompagnare le mamme a partorire. Se serviva qualcosa io correvo. Se qualcuno si fermava da me per fare due chiacchiere offrivo il caffè. La moca era sempre pronta”. Eppure, al rientro dalle ultime vacanze, la saracinesca del suo negozio è rimasta giù. L'insegna rimossa. Insieme alla specchiera e le poltrone d'epoca, sempre le stesse dal giorno dell'apertura. Da Salvatore si respirava ancora l'aria impregnata dal fumo delle migliaia di sigarette che clienti e proprietario non hanno mai smesso di fumare in barba ai divieti. Ma ormai anche per quella, la barba, si va al centro commerciale. “Però, certo, il caffè lì non te lo fa nessuno”.

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Claudia Daconto