Io, modenese trapiantato a Milano, in ansia per la mia terra
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Io, modenese trapiantato a Milano, in ansia per la mia terra

Roberto Barbolini, scrittore e giornalista, racconta l'angoscia della  lontananza e la paura dei suoi conterranei costretti a convivere con lo  sciame

La mia amica Marzia abita a Novi di Modena. La sua casa e il suo studio di fotografa sono inagibili, lei e il marito dormono ormai da due settimane in un camper. Il botto di ieri sera, quello che ha fatto crollare la settecentesca torre dell’orologio al centro del paese, le ha causato un’altra notte di patema: «Ormai» mi ha confessato al telefono «avverto anche i sommovimenti più impercettibili, ho sempre l’impressione di sentirmi ballare la terra sotto i piedi. È come se dentro tutti noi, che stiamo vivendo l’incubo di questo dannato terremoto, si fosse risvegliato un istinto primordiale, una specie di sismografo atavico che ci tiene in allerta perenne».

 È lo stesso istinto che la sera del 20 maggio, quando ci fu la prima, micidiale scossa, a duecento chilometri dal sisma mi fece svegliare in piena notte – lo giuro - con quello che col senno di poi posso solamente definire un presagio: «Speriamo che il duomo e la Ghirlandina siano in piedi» m’ero augurato, pensando ai due monumenti-simbolo della mia Modena, proclamati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Mia madre l'avrebbe chiamato sesto senso. Io non so come chiamarlo, ma certamente qualcosa dentro di me mi ha avvertito, ancor prima che televisioni, web e giornali ne parlassero, che l’epicentro del terremoto riguardava la terra dove sono nato. Facendo i debiti scongiuri, Modena è stata finora abbastanza risparmiata, ma anche in città ci sono chiese e palazzi transennati. Ci ho fatto un salto qualche giorno fa, dopo la terribile seconda scossa del 29 maggio: nelle strade deserte si respirava la paura, come negli occhi delle tante persone accampate nei giardini e nei parchi pubblici.

Lo so che cosa direbbe un cinico: se l’uomo avesse le radici sarebbe una pianta, non se ne andrebbe in giro per il mondo inseguendo le proprie chimere. Ma come definire se non radichi quel senso profondo di appartenenza, etnica ed etica insieme, che in questi giorni mi fa sentire quasi in colpa, vivendo altrove, di non poter condividere se non in modo mediato e mediatico le paure e i disagi della mia gente? Penso alle macerie del castello di Finale Emilia, patria del mio amico scrittore Giuseppe Pederiali; penso alla torre dell’orologio crollata nel centro di Novi, alla villa di Disvetro dove visse scontroso il grande Antonio Delfini, alle chiese e ai palazzi distrutti della Mirandola, con un misto di rammarico e d’orgoglio: l’orgoglio di appartenere, come ha scritto il mio conterraneo Arrigo Levi, a una «terra gentile e prospera» e a una gente forte e concreta. Il terremoto ha bussato forte proprio in quelle zone della Bassa, tra Concordia e Mirandola, su cui signoreggiava Giovanni Pico, il grande umanista dalla memoria prodigiosa, soprannominato la Fenice degli ingegni. Spero che, come la Fenice, anche queste terre rigogliose e industriose risorgano presto dalle proprie ceneri. Non voglio più, per via delle famigerate radici, svegliarmi nel cuore della notte con certi brutti presagi.

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Roberto Barbolini