Trattativa Stato-mafia: De Gennaro smonta la tesi dell’accusa
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Trattativa Stato-mafia: De Gennaro smonta la tesi dell’accusa

Il testo della deposizione dell’ex capo della Dia, ascoltato come parte offesa in udienza preliminare

di Anna Gemoni
Nel 1993, Gianni De Gennaro, attuale sottosegretario con delega ai servizi segreti nel governo Monti, era direttore della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Il 10 agosto ’93 in una relazione riservata di 24 pagine, sulle stragi di Milano e Roma avvenute nella notte tra il 27 e 28 luglio, De Gennaro fa il punto tenendo conto anche dei resoconti degli altri enti investigativi, quello del Cesis, per esempio, organo dei servizi segreti, sulle bombe del ’92 e del ’93. Ma la Dia nel redigere quell’appunto, destinato ad uso interno per le altre forze investigative, si spinge un po’ più in là con alcuni termini. Parla di  trattativa, di cedimento dello Stato, di centri di potere. Quella nota, oggi, per il clamore delle analisi svolte e soprattutto per la scelta di alcune parole, diventa influente.

Proprio per questo, pochi giorni fa, viene ascoltato in aula bunker a Rebibbia, durante l’udienza preliminare del processo trattativa Stato-mafia. L’ex capo della Dia, è anche parte offesa nello stessa inchiesta per le calunnie aggravate del figlio di Don Vito nei suoi confronti, che sono costate, per la seconda volta, le manette allo Junior.

Durante una deposizione estenuante, durata oltre quattro ore, il prefetto smentisce quanto sostenuto da Martelli. L’ex Guardasigilli sia davanti ai magistrati siciliani sia davanti alla commissione antimafia, aveva sostenuto che si era lamentato per l’abuso di potere che avevano avuto sia il capitano De Donno, sia il suo superiore, l’allora colonnello Mori, per aver svolto indagini di mafia come raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, in quanto la competenza in materia era passata alla Dia per legge. Ebbene De Gennaro ha spiegato più volte, proprio per le domande pressanti che gli venivano rivolte su questo tema, che non ha mai saputo di lamentele del ministro Martelli. E così come aveva anche confermato anche Tavormina, suo predecessore alla guida della direzione antimafia, la stessa Dia, sebbene per legge dovesse essere un’unica struttura di intelligence che accorpava le altre forze, invece si poneva come “altra struttura investigativa” parallela al Ros dei carabinieri, allo Sco della polizia e al Gico della guardia di finanza. Infatti il sottosegretario,  rivela che nemmeno il servizio centrale operativo della polizia, guidata dal suo amico Manganelli,lo aveva informato sulle attività di indagini relative a Nitto Santapaola e alla sua cattura, aggiungendo che tale procedura permane anche oggi.

De Gennaro poi sviscera le 24 pagine del suo appunto datato 10 agosto 1993. E sotto pressanti sollecitazioni, chiarisce e ripete quasi allo spasimo, che “sebbene quel documento abbia richiamato tanta attenzione” e clamore andrebbe “contestualizzato” e che “non è ipotesi investigativa” ma “una chiave di lettura” che viene prima della formulazione di un’analisi.  Spiega poi l’uso di quelle parole (trattativa, cedimento di Stato) che oggi assumono decisamente un significato diverso. “Bisogna leggerlo  con un’interpretazione del senso e con l’emotività del momento”, continua a ripetere. Del resto, l’ex direttore della Dia, aveva precisato bene il 15 settembre 1993 di fronte alla commissione stragi il significato di quell’appunto che era per uso interno. Basta rileggere quell’audizione per capire il vero senso di quella relazione.

Inoltre nel ribadire che anche la procura di Palermo era a conoscenza della relazione della Dia fin da settembre 1993, il prefetto, stretto collaboratore di Giovanni Falcone, inizia a minare l’impianto accusatorio dei pm siciliani.

Delle due, l’una. O quella nota è stata sottovalutata durante gli anni delle bombe con corresponsabilità evidenti anche da parte della magistratura palermitana o è sopravvalutata ora.
Ma la tesi della procura di Palermo si incrina ancor di più quando il sottosegretario inizia a fare una serie di affermazioni.

La prima è sul famoso appunto, che era nato anche sulla base della relazione dell’organo dei servizi, il Cesis, del 6 agosto 1993. Nella nota del Cesis si afferma la validità del 41 bis:  il “mantenimento di costante pressione sul crimine organizzato e sul carcerario senza cedimenti sull’applicazione del 41 bis” . Nel redigere la relazione chi c’erano?  Fra gli altri investigatori, anche l’allora colonnello Mori e il numero due del Dap, Francesco Di Maggio. Con quell’atto sia Mori sia Di Maggio confermano la loro posizione di fermezza sul 41 bis. E questo elemento cozza  con l’ipotesi accusatoria della Procura palermitana che li vede come attori protagonisti, sebbene con ruoli diversi, per l’allentamento del carcere duro ai boss.  

Il sottosegretario durante le quattro ore di interrogatorio davanti al gup Morosini, a scanso di equivoci, dichiara anche che Di Maggio,  “era un magistrato severo, un inquisitore”  e che era incline al 41 bis “anche per ideologia”.  

In ultimo l’ex capo della Dia, a sorpresa, minando ulteriormente il castello accusatorio dei magistrati ha dichiarato di aver incontrato il giudice Paolo Borsellino fino al 16 luglio 1992 e di averlo sentito telefonicamente fino al giorno prima della sua morte, il 18 luglio, e che Borsellino non gli parlò mai di trattativa Stato-mafia, di  trattative, di traditori, di carabinieri o di servitori “infedeli” dello Stato.

Dopo questa deposizione, il processo che si sta celebrando nei confronti di uomini di Stato appare sempre più debole, ma la parola spetta domani il giudice Morosini che deciderà le sorti dei dieci imputati.  

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