Com'è difficile fare il prete nelle terre mafiose
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Com'è difficile fare il prete nelle terre mafiose

Alcuni anziani parroci, tra Rosarno e Reggio, vengono criticati  per lo scarso attivismo contro la ’ndrangheta. Sono paurosi o conniventi? «Panorama» ha voluto ascoltare la loro versione

Con Fabio Melia

Il forestiero che si lascia alle spalle la costa ionica e guida a zig zag in mezzo a un verde sempre più rigoglioso, appena entrato a San Luca ha la sensazione di baciare i piedi all’Aspromonte. Il grigio delle case senza intonaco e il nero delle vesti è spezzato solo dai sussulti di colore dei bambini che giocano nei vicoli in canottiera. Nessuna indicazione per il municipio, la guardia medica o la caserma. I pochi cartelli stradali sono ridotti a grattugia dai proiettili. I buchi nei cassonetti sono più grossi, da arma pesante. Niente vigili urbani. L’unica traccia dello Stato è il cippo in ricordo di un carabiniere ammazzato a fucilate.

Provi a chiedere la via che porta al santuario della Madonna di Polsi e ti ritrovi con la macchina sul greto di un fiume. E non hai sbagliato strada. Fai il percorso più tranquillo e rimani per ore in ostaggio di una montagna così bella e selvaggia da incutere rispetto. E sei solo un viandante.
Se invece sei un sacerdote, e ti mandano a curare queste 4 mila anime, di cui 1.500 disoccupate ma non squattrinate, alcune centinaia in regime di sorveglianza speciale e una quarantina denunciate per abbandono scolastico dei figli, come minimo fai come don Abbondio e te ne guardi bene dal pestare i calli. Il prete eroe lo vai a fare in pianura. Senza con questo pretendere di appianare la diatriba su Pino Strangio, parroco indigeno, per alcuni prete coraggio in terra di frontiera, per altri troppo morbido e vicino alle famiglie mafiose.
Bisogna dunque partire da San Luca, patria della ’ndrangheta e della faida che nell’agosto 2007 ha prodotto la strage di Duisburg, se si vuole capire il rapporto che s’instaura fra uomini di Chiesa e malavitosi nelle aree ad alta densità criminale. Leggere dentro le parole di un sacerdote, come quello di Rosarno, che in un’aula di tribunale definisce «galantuomini» alcuni presunti affiliati alle cosche. O di un altro che si scaglia contro una giustizia definita «meschina» perché bersaglia persone innocenti. O di un altro ancora che viene rinviato a giudizio per falsa testimonianza.

Girando in lungo e in largo per la Calabria, di storie come queste se ne trovano diverse. Preti che qualcuno chiama pavidi, conniventi, collusi, perfino mafiosi. Chissà. In ogni caso si tratta di uomini spesso lasciati da soli a fare i conti con la mafia, la criminalità, la povertà, il degrado, la mancanza di speranza e di futuro. Abbandonati e poi spesso condannati dall’opinione pubblica nell’illusione che si possa dividere la palude calabra in bianco e nero, buoni e cattivi, mafiosi e antimafiosi.
Don Carmelo Ascone, detto «don Memè», 73 anni, gli ultimi 20 passati a Rosarno, terra di faide e morti ammazzati, ha suscitato clamore quando si è presentato in tribunale, a Palmi, come testimone della difesa nel processo All inside. Era il 20 luglio scorso. Chiamato a esprimere un giudizio su tre presunti affiliati alle cosche, don Memè ha parlato chiaro: «Francesco Pesce è un mio amico, Domenico Varra è un gran gentiluomo, Franco Rao è una brava persona». Il pubblico ministero Alessandra Cerreti, per protesta, è uscita dall’aula. Anche perché il parroco della chiesa dei Santi Cosma e Damiano era già finito nel ciclone, in passato, quando il gruppo scout della parrocchia fu sciolto in seguito a un’indagine per mafia.  
Seduto alla scrivania del suo ufficio, a fianco di un monitor con le immagini delle quattro telecamere interne ed esterne alla chiesa, don Memè prova a spiegare a Panorama il senso della sua missione: «Rosarno è un paese povero, da un punto di vista economico e culturale. La colpa è della politica, che non è al servizio della gente, ma d’interessi personali. La mia chiesa è aperta a tutti. Una parola di conforto e di speranza non si nega a nessuno. Io non amo gli schemi, preti antimafia o preti con la mafia: io sono prete e basta. La mia missione è salvare le anime. La frase così come riportata dal tribunale è decontestualizzata. Io volevo difendere il mio paese e la mia gente. È vero, la mafia esiste. Ma qui la maggior parte della gente è onesta».
Qualche anno fa è stato arrestato per mafia il sindaco, Carlo Martelli. «Poi l’hanno rilasciato» dice don Ascone «e lo Stato l’ha pure risarcito. Tante persone pulite sono finite in galera. Bisogna stare attenti a colpire i veri delinquenti e a non fare perdere la speranza alle persone oneste. Sei mafioso solo perché hai cambiato un assegno postdatato? Questa può essere ingenuità, debolezza, non mafia. Alzi la mano chi avrebbe il coraggio di dire di no a certe persone».

Qualcuno già ci riesce. Giacomo Panizza, per esempio, è un prete bresciano che vive da anni a Lamezia Terme: è a capo di una comunità che gestisce terreni confiscati ai criminali, motivo per cui è stato oggetto di diversi attentati ed è finito sotto scorta. Oppure Pino De Masi, vicario generale della diocesi di Oppido-Palmi e referente dell’associazione Libera per la piana di Gioia Tauro, destinatario di minacce di morte. «Tra mafia e Vangelo c’è incompatibilità assoluta» dice don Pino a Panorama. «Certo, la porta della chiesa non può essere chiusa neppure davanti a un mafioso, al quale devo annunciare la parola di liberazione e porre l’invito alla conversione. Ma bisogna stare ben attenti a non tenere comportamenti accomodanti e ambigui. Anche se la giustizia non ti ha ancora condannato, non significa che la tua condotta non sia moralmente deplorevole».
C’è stato un lungo periodo in cui la Chiesa negava l’esistenza stessa della ’ndrangheta in quanto organizzazione criminale, perché finanziava parrocchie e feste patronali. «Tanti preti sono cresciuti in quella cultura e si sono adagiati su quel modus vivendi» sostiene Enzo Ciconte, calabrese, docente di storia della criminalità organizzata all’Università Roma tre. «Un sacerdote non può dire: le porte della mia chiesa sono aperte a tutti, io non posso sapere cosa fa la gente alla fine della messa. Non è vero, perché nel segreto del confessionale viene a conoscenza della verità. In questo modo finisce per diventare la cintura di protezione della ’ndrangheta, la sua legittimazione culturale e sociale. Perché se la gente di paese sente il prete dare della brava persona a un boss pensa che sia vero».

La cultura di cui parla Ciconte è proprio quella che si respira arrivando a Limbadi, dalle parti di Vibo Valentia e Tropea, regno incontrastato della famiglia Mancuso, una potenza in fatto di traffico internazionale di droga. Qui dice messa da quasi mezzo secolo Giuseppe Saragò, 72 anni: «La chiesa è sempre aperta, chi vuole entrare è ben accolto» dice. «Quando sono arrivato qui, a metà anni Sessanta, uno dei capi di allora mi disse: se avete bisogno, rivolgetevi a me. Io risposi che avevo bisogno solo di Dio. Lui comandava e rispettava tutti, era amico di tutti. Se poi combinava altre cose, erano fatti suoi. Era riuscito pure a farsi eleggere sindaco, ma il presidente della Repubblica Sandro Pertini, su pressione dei comunisti, sciolse il consiglio prima che s’insediasse». Don Giuseppe non vuole dire il nome di quello che definisce un «perseguitato dalla giustizia». Si chiamava Francesco Mancuso, fu il primo candidato latitante eletto sindaco nel 1983.

Anni e cultura nella quale non pare cresciuto Vincenzo Scerbo, giovane sacerdote di Isola Capo Rizzuto che nell’aprile scorso, appena ordinato, ha lanciato un’invettiva pubblica: «In questa sede, gravida di dolore, elevo la mia preghiera a Dio perché la sua giustizia intervenga là dove la giustizia di questo mondo ha dimostrato tutta la sua meschinità e la sua grettezza e non si fa scrupolo di condannare persone innocenti». Letta come un’invettiva contro i magistrati, che avevano appena condannato suo padre Romolo per un’estorsione aggravata da metodi mafiosi, la predica era stata poi smentita da don Vincenzo: «Ho espresso solo la convinzione che mio padre sia innocente, mentre evidentemente i giudici sono di avviso diverso, ma che Dio mi fulmini se sono contro i magistrati».
Certo il terreno è scivoloso. È un fiume in piena Nuccio Cannizzaro, parroco del rione Condera a Reggio Calabria. Le parole rese a un avvocato gli sono costate una denuncia per falsa testimonianza e un rinvio a giudizio. Si sfoga con Panorama: «I problemi di questa terra sono due, la ’ndrangheta e l’antindrangheta. La prima vuole comandare e imporre le sue leggi. La seconda finisce per criminalizzare tutti. Ci vogliono fare credere che ci sono mafiosi ovunque, dentro la Chiesa, la pubblica amministrazione, le forze dell’ordine, i tribunali. Non si fa così. La zona grigia non esiste. O sei mafioso o non lo sei. Qui a Reggio perfino gli intellettuali hanno paura di esprimere liberamente il loro pensiero, hanno paura della ’ndrangheta, ma anche dell’antindrangheta. La prima ti distrugge con una fucilata, la seconda con un avviso di garanzia o un articolo di giornale. Ti viene consegnato il patentino di legalità e una volta che ce l’hai puoi fare quello che vuoi, perfino uscire dalla legalità».
Bianco o nero? Buoni o cattivi? Un saluto, una stretta di mano, una parola fuori posto e sei fuori dagli schemi. In Calabria il grigio ha decisamente più di 50 sfumature.                

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Carmelo Abbate