'Così curiamo i cocainomani al di sopra di ogni sospetto'
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'Così curiamo i cocainomani al di sopra di ogni sospetto'

Sono tossicodipendenti «anomali»: hanno un buon lavoro, una rispettabilità. A Brescia un centro pubblico propone loro una nuova terapia

di Alessandro Giberti

Non immaginatevi sguardi stralunati e look trasandati. Tutto il contrario. Al primo contatto si fa addirittura fatica a distinguere i medici dai pazienti. Solo il camice bianco aiuta, ma se lo stesso cambiasse di corpo, trasferendosi dagli uni agli altri, la scena sarebbe ugualmente plausibile. Il motivo è semplice: a rivolgersi al Centro clinico cocainomani socialmente inseriti di Brescia, come indica il nome stesso, sono persone perfettamente inserite nella società, non tossicodipendenti relegati alla marginalità. Di più, il centro rappresenta molte gradazioni dell’insospettabilità: c’è il professionista di quarta generazione e il businessman di successo, c’è il dirigente di multinazionale e il commerciante, c’è il piccolo imprenditore e l’operaio.

La prima domanda è diretta: «Cosa le piace della cocaina?». Ognuno dice la sua: la sensazione, l’attesa, lo stato d’animo, il gesto... Chi non ne fa menzione scopre la guardia: «Ah perché, non mi dica che quel sapore amarognolo in bocca non le piace». «Sì dottoressa, mi piace» è la risposta d’ordinanza, rilasciata con un qualche tentennamento, ma che sancisce nel momento stesso della sua enunciazione la nascita inconsapevole del legame di fiducia. È sempre stato così, per oltre 250 volte. Tanti sono stati i pazienti transitati dal gennaio 2010 a oggi nel Centro clinico cocainomani socialmente inseriti di Brescia. Antonia Cinquegrana è la dottoressa responsabile del centro, una distinta signora, bresciana secondo regolamento: nei modi diretti, nella gentilezza fuori da cerimonia, nella precisione nel raccontare il suo lavoro.

Cocaina e lavoro sono i due assoluti di questa vicenda, in entrambe le direzioni secondo cui la si osservi. Per il tipo di pazienti, cocainomani che però hanno ottimi lavori (da qui il profilo di integrazione che è la ragione sociale del centro), e che sono qui proprio per non perdere il posto e per non mandare all’aria la propria rispettabilità, che a Brescia sono un po’ la stessa cosa («Da noi un uomo che non lavora è allo sbando, anche come autopercezione» dice Cinquegrana). E per i professionisti del centro, due psicoterapeuti, tre psicologi, due assistenti sociali e un’infermiera, il cui lavoro, alla fine di tutto, è sempre e proprio la cocaina.

Il centro è pubblico, quindi gratuito, anche se non sembra. Perlomeno non nell’accezione troppo spesso disorganizzativa che ha completato il termine negli ultimi anni. Qui tutto funziona: l’accettazione del paziente è veloce, di solito qualche giorno, a prova di ripensamento. Chiunque può rivolgersi al centro, a patto che utilizzi la cocaina solo per via inalatoria e non abbia mai avuto problemi di natura penale o amministrativa legati al suo utilizzo. Sono accettati esclusivamente pazienti volontari. È garantito l’anonimato, che anzi è incentivato dagli stessi medici. Il metodo non prevede alcuna somministrazione farmacologica. La fine della dipendenza si costruisce sulle volontà individuali dei pazienti.

Cinquegrana si occupa di cocainomani dagli anni Novanta, quando lavorava nella ricca Val Trompia e la polvere bianca soppiantò l’eroina. È stata l’esperienza sul campo a farle mettere a punto il suo metodo: la dottoressa fa firmare veri e propri contratti a breve termine ai pazienti, negoziati a quattr’occhi sulla base dei risultati che i pazienti stessi vogliono ottenere. Tre giorni senza coca, una settimana, 10 giorni senza... ed è consentita una sola possibile ricaduta. Due settimane con massimo due ricadute. Poi un mese «puliti». Si trova l’accordo e si firma. Esami delle urine (e a volte del capello) vengono predisposti a garanzia del contratto. Chi sgarra paga. C’è un minimo di elasticità, ma se il paziente non rispetta il patto dopo la seconda volta è fuori.

E la fermezza piace, anche ai cocainomani. «Io le devo semplicemente la vita» dice Bio, 46 anni, proprietario di due emittenti televisive della zona con 70 dipendenti. Bio (il nome di fantasia) non pippa più. È ufficialmente guarito, non più in trattamento, ma una volta alla settimana vuole incontrare la dottoressa per una chiacchierata. Parla apertamente della sua esperienza, un girone di abuso lungo più di 20 anni a 2 mila euro a settimana. Sembra sereno oggi, ma tutto, nel suo viso e nelle espressioni, trasmette l’impressione che non sia stato per nulla facile. «I soldi sono stati un problema. Ne avevo troppi e troppo presto» dice. Imprenditore nel Bresciano, impegnato anche in politica, la sua era una storia di successi. «A 24-25 anni ero messo piuttosto bene» sorride. «E per due o tre anni mi sono anche molto divertito: lavoravo alla grande di giorno e me la spassavo la sera. Anzi, riuscivo a fare bene le cose di giorno proprio perché sapevo che sarebbe arrivata la sera e avrei fatto quel che avrei fatto».

L’idillio con la coca, che Bio chiama «la fase iniziale», dura poco più di un anno. «Credi di essere invincibile: ti fai, mangi, vai in ufficio, lavori. La sera pippi dalle 9 a mezzanotte. All’una vai a letto e il giorno dopo riparti». Poi cominciano i problemi di decantazione, dovuti all’abuso: «In un attimo si spezza tutto. Vai a letto alle 6 di mattina e ti svegli alle 3 di pomeriggio, tutta la vita la vorativa va in frantumi. Una volta avevo una cena alle 21 con un cliente. Alle 19 la voglia era già tanta. La compro, stacco il telefono e addio appuntamento. Era una cena con una persona venuta apposta per consegnarmi un assegno. Doveva darmi molti soldi, non riceverli. Non ci sono andato senza neanche avvertire. Si arriva anche a questo».

Il Centro per cocainomani socialmente inseriti di Brescia è il primo e al momento l’unico in Italia. La Svizzera l’ha copiato da poco, ma non con uguale successo: solo una trentina di pazienti totali. È naturale domandarsi perché sia nato proprio qui. Il legame con la città è forte, nella concezione di sballo attivo, nell’importanza sociale, quasi etica, del lavorare prima ancora che del lavoro in sé, nell’idea che in fondo tutto, perfino il vizio, sia lecito se mantenuto all’esterno dei confini della sacralità di una professione.

È la provincia ricca del Nord, abituata a essere la provincia ricca del Nord. E non esiste deroga alla parte in commedia. Certe cose non cambiano, non importa se i cantieri sono fermi o se gli ordini al momento non partono. Va detto che da qui inizia anche quel grand tour particolare dello spritz che, sull’asse Verona-Vicenza-Padova-Treviso, arriva fino ai lidi di Venezia, costituendo una macroregione alcolica di indubbia tradizione, anche se qui si chiama pirlo (come il formidabile calciatore, anch’egli bresciano) e non spritz.

«È una zona con tanti bacati» taglia corto Bio. «Dove abito io ci sono quattro bar, in ognuno c’è uno spacciatore di coca» dice  un altro paziente, Sergio, 38 anni, che vive in un paese di 5 mila anime alle porte di Brescia. In effetti i dati parlano chiaro. La Lombardia è la regione con il più alto numero di cocainomani in trattamento nei vari Sert, i servizi per le tossicodipendenze: sono 7.765, più di Toscana, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio messe insieme. Solo il dipartimento dipendenze dell’Asl di Brescia ha in cura 1.028 cocainomani, due terzi di tutto il Veneto (1.640). «Ma le sembra credibile?» chiede Cinquegrana. «È possibile che tutti i cocainomani li abbiamo di qua del Garda e di là vanno avanti solo a spritz?». No, non sembra verosimile. Evidentemente le strutture «chiamano» i pazienti. A Brescia c’è un centro specializzato e i cocainomani si palesano; altrove non c’è nulla e quindi vivono e consumano in silenzio. Ma il territorio è lo stesso, la gente è la stessa, con i medesimi stili di vita, valori e disponibilità economiche. Spesso notevoli tra l’altro, queste ultime.

Tiea ha 37 anni, ma ne dimostra molti di meno. Ha una voce profonda, quasi mascolina. Ha speso circa 400 mila euro in coca in una decina d’anni. Ha cominciato imitando il suo capo, quando lavorava come agente di commercio. Poi l’impresa edile del padre si è ingrandita e lei ha deciso di entrare nel business di famiglia. È in cura da sei mesi a Brescia, e tra una settimana finisce. Non pippa più, fa sport, ha cambiato casa per dimenticare serate e festini. «La cosa peggiore è la svogliatezza nei confronti della vita cui la cocaina alla lunga ti conduce».

Anche per lei etica dello sballo ed etica del lavoro sono state a lungo un tutt’uno. «Ho sempre lavorato, magari anche male, ma sempre. E poi tiravo: ogni weekend, spesso anche durante la settimana. Ma bere no, una signora non beve». Alla parola droga è quasi sempre associata la parola tunnel. Il tunnel della droga... Pare banale, ma può assomigliare alla realtà, perlomeno in termini temporali: «Quando mi sono decisa a venire al centro» commenta Tiea «nella mia testa era come se fossi convinta di avere ancora 26 anni, quando cominciai con la coca. Ho completamente perso la cognizione del tempo che passava».

Anche per Nicola, 39 anni, piccolo imprenditore del settore impiantistico, gli anni sono scivolati via al ritmo cadenzato dell’obolo bianco. Buttando 50 euro al giorno, ogni sacrosanto giorno. Anche qui, lavoro e sballo insieme: «La prima riga alle 16.30, appena uscito dal cantiere. Alle 23 ero già a letto, pronto per la mattina alle 6». È evidente che la brescianità abbia un ruolo non secondario in questo connubio. La città conta parecchio, in tutte le testimonianze, anche quelle dei medici. A volte viene tratteggiata come una madrina benevola, nonostante tutto. A volte come un ostacolo allo spiccare il volo dei suoi figli più audaci. A volte assomiglia più a quella Brescia «grande e infelice» cantata da Aleardo Aleardi, soprattutto ora, attanagliata com’è da una parola, crisi, che da queste parti non era neanche nei dizionari.

«L’anno scorso ho fatto impianti in 350 appartamenti» dice Nicola. «Quest’anno in cinque mesi siamo a 40. Se stessi ancora pippando, mi sarei già ammazzato. È brutto da dire ma è così». Invece sono 12 mesi esatti che ha smesso, e in questo ha trovato la spinta per attendere giorni migliori. Come lui Tiea: «Sono rinata». Ma anche Bio e Sergio: «Con tutto quello che ho tirato su dal naso, mi ci compravo un paio di Porsche. Ma chissenefrega: per anni, sia al lavoro sia a casa, stavo sempre da solo. Ora mia figlia gioca sul tappeto e io, invece di starmene sul divano in silenzio con i miei pensieri, gioco con lei. Sono diventato un papà, ho smesso di essere io il bambino».

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