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Banca dati del Dna della Polizia: ecco come funziona

Operativa da gennaio 2017, ha catalogato oltre 500 profili genetici. Chi sono i soggetti ai quali viene prelevato il campione e quali i limiti di privacy

Da gennaio sono già stati catalogati circa 500 profili genetici. Parliamo della banca dati del Dna della Polizia di Stato, che ha finalmente visto la luce dopo l’approvazione della legge che l’ha istituita, la numero 85 del 2009, in adesione al trattato di Prum del 2005 (accordo tra paesi europei per la lotta comune a criminalità e immigrazione clandestina).

Partire dopo i principali Paesi europei non è stato per forza un male, perché quelle esperienze, specialmente in Inghilterra (il primo paese a dotarsi di una banca dati genetica, nel 1995), sono state utili per evitare errori.

Come funziona il lavoro nei laboratori della Polizia è stato illustrato in una conferenza all’interno della mostra “Il Dna: il grande libro della vita, da Mendel alla Genomica”, fino al 18 giugno 2017 al Palazzo delle Esposizioni a Roma, dove è presente una sezione della Polizia proprio su questo tema, con la riproduzione di una scena del crimine e gli strumenti utilizzati in laboratorio.

A cosa serve la banca dati del Dna

Il sistema opera su più livelli. In primo luogo, consente alle forze dell’ordine di confrontare i profili del Dna acquisiti sulle scene del crimine con quelli di persone sottoposte a provvedimento giudiziario: quando viene trovata una traccia si può rapidamente verificare se appartiene a persone condannate o schedate.

Inoltre, facilita nelle attività di contrasto della criminalità e del terrorismo internazionale. Infine, la banca dati è utile anche alla ricerca e all’individuazione di persone scomparse.

A chi si può prelevare il campione di Dna

Il campione biologico può essere prelevato (tramite un campione di mucosa dal cavo orale) in modo indiscriminato, maggiorenni e minorenni, solo a cinque categorie di persone:

→ chi viene arrestato in flagranza o sottoposto a fermo;

→ chi si trova in custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari;

→ i detenuti condannati in via definitiva per delitti non colposi;

→ chi ha avuto una misura alternativa al carcere sempre per un delitto non colposo;

→ chi sconta una misura di sicurezza detentiva in via provvisoria o definitiva.

Ci sono poi i casi limite: per risolvere l’omicidio di Yara Gambirasio sono stati prelevati campioni a tutta la popolazione (su base volontaria però) residente in un territorio circoscritto.

I reperti biologici

L’altro tipo di lavoro è quello sui reperti biologici: le tracce rinvenute sulla scena di un crimine vengono catalogate senza sapere a chi appartengono, per poi essere confrontate con il Dna dei sospettati.

"La banca dati è uno strumento di grande aiuto per combattere tutti i tipi di reato e per risolvere i cold case”, osserva il direttore della Polizia Scientifica, Luigi Carnevale.

Con il passare degli anni e l’affinamento delle tecniche, i confronti sono considerati assai affidabili. "L’attribuzione di una traccia biologica non coincide automaticamente con l’attribuzione di un reato. Ma se prima si poteva parlare di compatibilità tra due tracce, oggi si può arrivare ad appurare con certezza se due tracce appartengono alla stessa persona", spiega Alessandra Caglià, biologa e direttore tecnico del laboratorio della Polizia.

La privacy

Naturalmente c’è poi il problema della privacy, perché la molecola di Dna contiene tutta la storia di quella persona, compresi i dati sensibili sulla salute. A tutela degli individui “schedati” c’è l’azione della magistratura e il garante della privacy. Ma non è detto che bastino.


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Gianluca Roselli