Mumford & Sons, "Wilder mind" - La recensione
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Mumford & Sons, "Wilder mind" - La recensione

La band inglese ha spiazzato i fan con le sonorità elettriche delle nuove canzoni

Gli alfieri del neo folk sono diventati rock

Dopo i successi mondiali di Sigh no more del 2009 e di Babel del 2012, nei quali i Mumford & Sons  hanno rinverdito i fasti del folk con un’attitudine moderna, il nuovo album Wilder mind segna un netto cambiamento di stile del quartetto inglese verso sonorità più elettriche. Le chitarre acustiche hanno lasciato spazio a quelle elettriche, il basso ha sostituito il contrabbasso, sì alla batteria e no al banjo, lo strumento che caratterizzava maggiormente il loro sound. C’è chi ha paragonato la svolta elettrica di Wilder mind a quella di Bob Dylan del 1965 con l’album Bringing It All Back Home, un paragone francamente improponibile, anche se è evidente che molti fan del vecchio corso siano rimasti spiazzati da un cambiamento così netto. Tutti adesso si domandano se le vecchie canzoni saranno riproposte dal vivo nelle versioni originali o se saranno riarrangiate in chiave più moderna. Lo scopriremo nei tre concerti estivi del 29 giugno a Verona, del 30 giugno a Roma e del 1 luglio a Pistoia.

Vediamo insieme, cliccando le frecce laterali, come sono le nuove canzoni di Wilder mind.

Le ballad

I Mumford & Sons ci hanno abituato, nei due album precedenti, a ballad romantiche, sincere e malinconiche, tutti ingredienti che ritroviamo anche in Wilder mind. Monsters e Cold arms già ce le immaginiamo cantate in coro durante il live, con gli spettatori che illuminano le arene con gli smartphone per rendere più suggestiva l'atmosfera.

I brani in crescendo

Un altro topos della produzione del quartetto inglese sono le canzoni che partono piano, fino ad arrivare a un travolgente crescendo. Esemplare, in questo senso, è The wolf, uno dei brani migliori dell'album, che inzia con sonorità electro pop alla Phoenix fino ad acquistare vigore con la chitarra, il basso e la batteria che suonano quasi all'unisono. Stesso discorso per Believe, che sembra quasi una canzone dei Coldplay, e per Snake Eyes, trascinata da sintetizzatori e chitarre scintillanti.

Il giudizio

Wilder mind, nonostante il titolo, ha ben poco di selvaggio, ma è un album con buone canzoni, alcune eccellenti e un paio trascurabili. Il problema della svolta elettrica dei Mumford & Sons potrebbe essere la perdita di una precisa identità sonora del quartetto, che era evidente in Sigh no more e Babel, mentre qui le canzoni rischiano di doversi confrontare con gruppi come U2, Coldplay e Snow Patrol che già da anni interpretano con successo questo tipo di sound melodico-elettrificato. Se questo lavoro resterà solo una parentesi  o meno lo potrà dire solo il futuro. Il gruppo dimostra di cavarsela egregiamente anche con chitarre elettriche, basso e batteria e la voce di Marcus Mumford è sempre sicura ed espressiva. Forse serve un po' di tempo per abituarsi a questa nuova veste, più elegante e contemporanea rispetto agli abiti e alle sonorità rurali a cui i Mumford & Sons ci avevano abituati.

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Gabriele Antonucci