J-Ax & Fedez: noi, lo smartphone, la vita e la musica - Intervista
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J-Ax & Fedez: noi, lo smartphone, la vita e la musica - Intervista

Le due star della musica italiana nel 2015 svelano a Panorama i retroscena del loro rapporto con la rete e la tecnologia

La rete e e i social sono legati a doppio filo con la loro storia e le loro carriere. Carriere di straordinario successo, fatte di album che sbancano le classifche (Pop-Hoolista e Il bello di esser brutti), di concerti sold out in tutta Italia, di talent show (X Factor per Fedez, TheVoice of Italy per J-Ax) e di un progetto comune che si chiama Newtopia, la casa discografica che hanno fondato insieme. Panorama li incontra sul set di uno studio fotografico a Milano. Sono lì, pronti a farsi immortalare per la copertina di Panorama, mentre le dita scorrono veloci sui rispettivi smartphone sempre a portata di sguardo. Il tema dell’incontro è per l’appunto la «look-down generation», quella che l’inglese The Times ha di recente definito «La generazione di chi ha perso la capacità di comunicare guardandosi negli occhi».

Quanta umanità sottrae alle vostre relazioni personali vivere con lo sguardo perennemente rivolto allo smartphone o al tablet?

Fedez: Ma siamo così sicuri che prima della febbre da smartphone e da connessione continua fossimo un’umanità così sensibile e disincantata? A differenza di quella che mi piace chiamare «prima Repubblica delle dipendenze», dove venivi imboccato soltanto dalla televisione, nell’era della look-down generation il fruitore è fautore della propria dipendenza: sceglie le notizie, decide che cosa leggere o in quale social immergersi. Certo, se portato all’estremo, tutto può diventare patologico, ansiogeno e disumanizzante. Anche lo sport può potenzialmente diventare un’ossessione. C’è chi si fa di steroidi...

J-Ax: Secondo me, attraverso i social si è più connessi di prima all’umanità. Da uomo di 42 anni, cresciuto in un mondo senza Internet e cellulari, posso dire che ci si può sentire davvero soli e disperati anche in strada con una compagnia di 20 persone intorno. Ai miei tempi, se ti appiccicavano addosso l’etichetta dello sfigato, eri rovinato e non avevi scampo perché il tuo mondo finiva lì. Ok, oggi abbiamo traslocato le nostre vite dentro uno smartphone, ma non sta finendo il mondo. I miei genitori mi imponevano quotidianamente il distacco dal Commodore 64. Se non fossero intervenuti, sarei rimasto incollato alla sedia per giocare. Ogni generazione sviluppa una dipendenza tecnologica legata al tempo che vive.

Per esempio, se parliamo del presente, mandare sms al vicino di scrivania senza rivolgergli la parola o scattare selfie a getto continuo, o ancora immortalare con un video qualsiasi evento della vita come se non bastassero più i ricordi e la nostra memoria...

J-Ax: È tutto vero, ma occorre distinguere: quelli che veramente passano la vita fissando compulsivamente lo schermo del telefono sono gli stessi che avrebbero comunque lo sguardo abbassato su qualcosa, magari su un giornale sportivo o un tabloid di gossip. Non si deve dimenticare che i cellulari hanno sostituito un sacco di oggetti fisici come la calcolatrice, le mappe stradali. Con il telefono consultiamo anche il conto in banca. Non mi sento di dire che viviamo tutti con lo sguardo abbassato per perdere tempo sui social network a mettere dei «like» o per immortalare noi stessi o qualsiasi cosa si muova intorno a noi. Stiamo assistendo in diretta a un nuovo stadio della nostra evoluzione. A volte, il dibattito sulla schiavitù da schermo digitale mi ricorda certi articoli dei quotidiani negli anni Ottanta che demonizzavano i videogiochi da bar perché rincoglionivano e al tempo stesso istigavano alla violenza.

Fedez: Indubbiamente viviamo in un tempo in cui ci sono distacchi inquietanti dalla vita reale. Penso a un nuovo trend, a quei milioni di persone che fissano video di YouTube che immortalano altre persone straordinariamente abili in un videogioco. Ecco, trascorrere il tempo nemmeno a giocare, ma a guardare altri che smanettano, è una forma di noia e di sedantarietà fisica e mentale. Non capisco, forse, inizio a diventare vecchio pure io (ride, ndr). Detto questo, non bisogna mai dimenticare che per chi vive in paesino dimenticato o in una zona senza stimoli professionali e culturali, quello schermo è sinonimo di libertà e rappresenta la sua unica finestra sul mondo.

Lo stile della look-down generation ha stravolto anche il rito dei concerti: migliaia di spettatori immobili con le mani tese verso l’alto per reggere telefoni in modalità videocamera. Una bruttura o soltanto un segno dei tempi?

J-Ax: Dal palco io vedo questa scena: quelli che stanno con il telefono in mano per tutto lo show non superano il 30 per cento. Sono quasi tutti ragazzi nati dopo il 2000, che vivono con l’ossessione di immortalare i ricordi. Se questo li rende felici, non c’è problema. Il resto del pubblico, quello più adulto, filma solo la sua canzone preferita. Mi sembra ragionevole. Il punto è che l’umanità è in piena luna di miele con questo utilizzo della tecnologia e il pubblico dei concerti non fa eccezione.

Fedez: Per me è solo un segno dei tempi. Non me la sento di colpevolizzare chi si guarda un mio show attraverso il suo telefono. Non la considero un’epidemia. Cambiando completamente scenario, mi pare molto più preoccupante chi delega senza remore a un tablet l’intrattenimento di bambini anche molto piccoli.

Ma non sarebbe ora che tutti ci disintossicassimo un po’ da questa ossessione da schermo?  

J-Ax: Io, per esempio, non uso i social per interazioni personali. Esisto in questa dimensione solo come J-Ax, per promuovere la mia musica e i miei progetti. Certo, ogni tanto sento l’esigenza di liberarmi dalla schiavitù di consultare le mail... Devo però ammettere che i social e la rete hanno cambiato il corso della mia carriera. Non sarei dove sono adesso, perché a un certo punto i media avevano deciso che J-Ax aveva fatto il suo tempo. Invece, attraverso il web, le mie canzoni hanno continuato a trovare pubblico e fan.

Fedez: Non ho una dimensione privata social: non ne sento l’esigenza, nel senso che non ho un privato, vivo per quello che faccio. Esisto su Facebook per ragioni di marketing, per coesione con il pubblico e per difendermi da campagne denigratorie. Mi libero dallo schemo quando vado all’estero e tendo a non guardare assolutamente nulla. Non essere fagocitati dal mezzo dipende dal singolo. Se uno smartphone possiede la nostra vita, allora c’è un problema: è il sopravvento della macchina sull’uomo. Ma, ripeto, dipende solo da da noi.

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Gianni Poglio