Filippo Timi, un inferno di rose
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Filippo Timi, un inferno di rose

"Un vibratore del lusso infiammato di paillette, come una superstar pronta a morire sul sunset boulevard": secondo Filippo Timi che porta in scena un fantasmagorico “Don Giovanni” l’anima sta nel costume. Filippo Timi è uno dei protagonisti del nuovo numero di Flair in edicola con Panorama questa settimana

«Cercavo qualcosa di assoluto, non di storicamente corretto. Stavo guardando 2001: Odissea nello spazio, in particolare l’ultima sequenza, quella casa-stanza dal pavimento abbagliante mi è sembrata perfetta per esprimere un non-luogo, astratto ma in apparenza reale, concreto. Quindi ho utilizzato il colore bianco e il plexiglass, accanto a quinte dorate, per restituire la mia idea – filosofia e personaggi compresi – tra Barocco e Rococò».

Con questa scena “anti-sobria” si presenta IlDon Giovanni secondo Filippo Timi, il personaggio libertino di Molière e Mozart, che l’attore e regista perugino senza facili reverenze ha venato di humor nero, trasformandolo in un virus che contamina il pianeta. In una girandola di pelli color carne e nero, di tessuti carichi al limite dell’indossabilità, di cimeli e luci caravaggesche, i costumi firmati dal design director di Prada Fabio Zambernardi con lo stilista Lawrence Steele diventano gabbie esistenziali, mentre i dialoghi si spingono oltre la morale. Non solo: video da YouTube, con ginnaste olimpioniche e improbabili ballerine cinesi, servono a cambi di scena, quanto alla colonna sonora che passa da L’Uomo Tigre, indimenticato eroe nipponico dei cartoon, alla liberatoria Bohemian Rhapsodydei Queen.

Dopo il successo al teatro Franco Parenti di Milano che ha coprodotto lo spettacolo con lo Stabile dell’Umbria, presto Timi giocherà in casa. Dal 10 al 14 aprile sarà infatti a Perugia, al Teatro Morlacchi. Un incontro delicato. «È un passaggio cruciale, perché apro lo spettacolo con un video che ho girato a mia madre. Indossa una parrucca, è truccata, percorre il “Viale del Tramonto” proprio a casa mia... Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando si riconoscerà al Morlacchi, in formato 9 x10 metri! E poi c’è il fatto che nessuno è profeta in patria, anche se nel mio caso sia Amleto sia la versione di Giulietta e Romeo che ho proposto in umbro sono piaciute. Diciamo che le premesse sono buone».

Don Giovanni è una scelta estetica. Ma poi, centrifugando pop, Stanley Kubrick, You Tube, anni ’80 e la Sirenetta, la visione che ne risulta è eccentrica.

Guardi, è Don Giovanni che ha scelto me. Stavo preparando un lavoro sul male, su Satana e il Grand Guignol, e sono capitato su questa figura vampirizzante, fagocitante. È un mito attuale talmente forte da aver scalzato tutti gli altri, anche dentro in me.

“Un vibratore del lusso infiammato da un inferno di paillette, come una Superstar pronta a morire sul Sunset Boulevard”. Parole di Fabio Zambernardi che ha creato i fantasmagorici costumi.È una definizione impegnativa.

Un critico ha scritto che l’anima di Don Giovanni è il suo costume. Quando ho letto queste parole ho tralasciato le scenografie e mi sono focalizzato sugli abiti. Con Fabio non ci siamo dati limiti, anche perché l’anima della questione è andare oltre tutto, anche la morale, in un Settecento in cui c’è il trionfo dell’apparenza. Quindi l’estetica eccessiva proposta in scena si è fatta da sé: ha una precisa funzione, ogni elemento è importante perché esprime qualcosa che va oltre.

Dunque l’anima del personaggio vive nei suoi costumi. Un principio che vale anche nella vita reale?

La persona è qualcos’altro, di meglio e di peggio del personaggio, che resta comunque uno specchio dell’individuo, in un gioco di rimandi continuo. Nel mio caso ho scoperto che più sono specifico e concreto nell’interpretazione, più riesco a parlare a tutti.

Di solito con il Settecento viene in mente Maria Antonietta, l’oro, i minuetti. Il suo Don Giovanni preferisce invece L’Uomo Tigre.

Contaminare per me è un dovere. E poi avevo bisogno di stacchi netti nello spettacolo. Così ho ricavato dei video da quella miniera straordinaria che è You Tube: i video rompono con il tutto, quindi lo affermano. La scelta dell’Uomo Tigre come sigla? Nella mia immaginazione era scontato che Don Giovanni lo ascoltasse. Sarà preoccupante, ma è la verità.

Quali altre tessere vanno a formare il puzzle della sua estetica?

Jean Cocteau ma anche il film Che cosa sono le nuvole di Pasolini, un colpo al cuore. Come per me lo sono stati Otto e mezzo e La dolce vita di Fellini. Stanislavskij insegna che l’immagine è basilare, basta pensare allo Sean Penn di This Must Be the Place. È un concetto ampio, ma per essere veri a volte ci vuole una maschera, una sovrapposizione che ti rende più spudorato: solo travestendoti puoi spogliarti.

In scena lei indossa tacchi dorati e improbabili pellicce ricavate con le parrucche delle femmine sedotte.

Nel Settecento il machismo era diverso da quello di oggi, il Casanova di Fellini è un attore pieno di pizzi rosa, trovo un salto interessante usare qualcosa per affermare il suo contrario. Per questo indosso quel meraviglioso cappotto fatto con 1500 rose, di una pesantezza che non si può immaginare. L’impossibilità dei materiali e la scomodità dei costumi corrispondono alla ricerca di un linguaggio del corpo più affascinante.

A parte portare in scena un Satana in uniforme delle SS rosa shocking, cos’è l’inferno per lei?

Direi che è la vita (pausa, ndr). Ma io non do agli inferi un’accezione negativa. Per me è fatto di attriti, anche vitali. Mentre il paradiso è fatto di momenti in cui tutto sembra andare a posto. E avere un senso.

“Vivere è un abuso, mai un diritto”, si afferma nello spettacolo.

È la citazione dal filosofo nichilista francese Albert Caraco. Io non concordo: sono un gioioso della vita.

Sul piano estetico, qual è la conseguenza di essere se stessi?

L’originalità, nel bene e nel male. Questo significa non essere uguali a nessun altro. Io non ho uno stile, fuori dalla scena, diciamo che sto comodo, vario. La fortuna è che non mi viene richiesto di mettermi una divisa sociale. E quando vado sul set la prima cosa che fanno è cambiarmi, quindi non conta ciò che indosso: nella vita mi vesto, per spogliarmi sul lavoro.

Succederà anche nel suo prossimo film, Come il vento di Marco Simon Puccioni?

Lì sarò un uomo che insegna teatro in carcere e devo dire che portare sul set i jeans anni ’80 è stata una vera svolta: indossandoli mi sono sentito subito mio padre.

L’apparenza, che torna a toccare corde profonde. Insegnamenti avuti dalla figura paterna?

L’uso dei cerotti. Faceva il cementista, tornava spesso a casa con le dita delle mani massacrate e per farci più attenzione ci metteva sopra lo scotch da elettricista. Io uso lo stesso procedimento.

Sempre a proposito di “mise” originali: è vero che porterà in teatro anche Pinocchio?

Sì, e tutto sarà di legno, e la fatina, al posto della bacchetta magica, avrà la sega elettrica. È un atto necessario, per trasformare un burattino in bambino bisogna farlo a pezzi.

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Cristiana Allievi