Perché non abbiamo vinto la Coppa del Mondo
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Perché non abbiamo vinto la Coppa del Mondo

Così Giacinto Facchetti nel 1970 raccontava su Epoca la sconfitta contro il Brasile di Pelè

È andata così. Per 65 minuti della finale dei campionati del mondo, abbiamo sperato di portarci a casa definitivamente la Coppa Rimet, completando così l’opera degli azzurri dell’anteguerra.
Invece, in 20 minuti, abbiamo incassato tre gol e perduto con un punteggio che, a mio avviso, non rispecchia fedelmente l’andamento della partita.

Non abbiamo rimpianti: il Brasile è una squadra fortissima, con uomini come Gerson, Jairzinho, il vecchio Pelé, che hanno pochi rivali al mondo; e nel complesso non ha certo rubato la vittoria. Ma sono sicuro che, se nvece di avere solo tre giorni per rimetterci dal terribile sforzo dei tempi supplementari con la Germania, avessimo goduto di una settimana di riposo tra le due partite, l’esito sarebbe stato diverso.

Dopo l’improvvisa rete del 2-1, ci siamo trovati nell’incapacità di reagire con la necessaria energia e abbiamo finito col subire l’iniziativa dei brasiliani, sebbene toccasse a noi rimontare. Le gambe continuavano a girare, la testa a essere abbastanza lucida, la respirazione a funzionare, ma mancava quel «non so che» che quattro giorni prima ci aveva consentito di lottare fino all’ultimo e di strappare una vittoria che, a un certo punto, pareva essere sfumata.

La finale è cominciata a un ritmo relativamente blando, che ha un po’ sconcertato il pubblico. I brasiliani stavano cercando di imporre il loro gioco di metodici pressaggi mentre noi, sapendo di non avere proprio il serbatoio pienissimo, volevamo studiare l’avversario prima di lanciarci in avanti.
Tuttavia, nei primi 10 minuti, Riva effettuò tre tiri pericolosi e, se anche uno solo fosse andato a segno, la partita avrebbe potuto prendere una piega diversa.

Invece, al 18’, un po’ di sorpresa, venne il gol di Pelé. Il punto, non ebbe tuttavia ripercussioni sul nostro morale, perché sapevamo che il Brasile, con il favoloso attacco che si ritrova, sarebbe senz’altro arrivato a segnare. Bisognava, semplicemente, segnare più di loro, e in quel momento eravamo ancora persuasi di poterlo fare.
Venti minuti, infatti, ci bastarono per riportare le sorti dell’incontro in parità; e, quando alla fine del primo tempo ci ritrovammo tutti a metà campo, gli umori erano eccellenti. Gli attaccanti avevano constatato che la difesa brasiliana non era impenetrabile, noi difensori non avevamo avuto, a parte il gol, troppe noie.

Il terribile Jairzinho mi aveva sì costretto a rinunciare alle proiezioni offensive (perché lui non mi seguiva se varcavo la metà campo e quindi non potevo rischiare di affrontarlo poi a corto di fiato, dopo un recupero), ma non aveva toccato molti palloni. Tostao era stato quasi annullato da Rosato. Quanto a Pelé, una volta passato, come già previsto, dalla custodia di Bertini a quella di Burgnich, era stato anche lui ben contenuto.

Devo dire che, di tutti i brasiliani, la «perla nera» è quello che si è reso più antipatico, sia commettendo due falli particolarmente cattivi su Bertini e Cera, sia simulando con arte consumata sgambetti che nessuno si era sognato di fare: almeno un paio di volte, si è buttato a terra con slancio, appena perduta la palla, senza che uno di noi lo avesse toccato. L’arbitro, purtroppo, abboccava spesso a queste commedie e ha finito per fischiarci contro un numero eccessivo di punizioni.

Senza influenzare in modo diretto l’esito della partita, egli l’ha senza dubbio diretta in maniera gradita ai sudamericani, cioè frenando il gioco di combattimento in cui noi siamo superiori e favorendo invece la «samba» in cui i nostri avversari sono specialisti.

Con tutto ciò, all’inizio della ripresa la partita era indubbiamente sotto il controllo degli azzurri. La nostra impressione era che i brasiliani fossero leggermente calati di tono tra il trentacinquesimo e il quarantacinquesimo minuto e che, con un forcing più accentuato da parte nostra, avremmo potuto passare in vantaggio. Purtroppo, la nostra breve offensiva si esaurì con un tiro di Domenghini quasi identico a quello che ci aveva dato il pareggio contro il Messico, ma che, invece di finire in porta, andò in calcio d’angolo.

A partire dal ventesimo minuto circa, i brasiliani cominciarono a far sentire la loro maggiore freschezza. I due laterali, soprattutto Carlos Alberto, iniziarono ad avanzare più frequentemente, creando qualche problema di marcamento. Il gol di Gerson, un tiro indovinato da fuori area, fu una mazzata, e per disgrazia coincise forse con il nostro momento di maggior rilassamento, per cui, invece di scatenare una nostra reazione, ebbe l’effetto di esaltare maggiormente i brasiliani, che nello spazio di cinque minuti misero a segno la terza rete con Jairzinho. In questa occasione la nostra difesa, può essere apparsa, ai telespettatori, un po’ ingenua.

Ma Pelé, quando ricevette di testa il lancio era chiaramente in fuori gioco, tant’è vero che vidi con i miei occhi il segnalinee alzare la bandierina. Tutti avevamo perciò avuto un attimo di esitazione. Distrarsi prima che l’arbitro fischi è comunque un errore che avremmo dovuto evitare. Ma sono ugualmente amareggiato dal fatto che il segnalinee, forse intimidito dall’urlo di gioia del pubblico che per l’80 per cento parteggiava per il Brasile, non abbia avuto il coraggio di conservare la sua opinione.

A questo punto mancavano solo 20 minuti alla fine della partita e rimontare due gol era ormai un sogno. Entrarono prima Juliano al posto di Bertini, colpito duramente per due volte a un ginocchio, poi, in extremis. Rivera al posto di Boninsegna. Ma tutto fu inutile: si finì invece con il subire, un po’ scioccamente, una quarta rete, e i messicani furono così in grado di gridarci, al rientro in albergo: «Quello che avete dato a noi, il Brasile vi ha restituito».

Fu un ritorno in mezzo a centinaia di automobili che scandivano con il claxson: Brazil-Brazil. Nessuno di noi disse più di qualche parola. Io rivedevo il capitano del Brasile, Carlos Alberto, mentre riceveva la Coppa Rimet dalle mani del presidente messicano e pensavo che al suo posto avrei potuto esserci io.

Ma poi considerai anche che, dopo tutto, il secondo posto non era un risultato da buttare via, che il Brasile era sempre stato il gran favorito e che ancora alla vigilia dell’incontro l’intera stampa mondiale aveva puntato su di lui. Se avessimo sovvertito questo pronostico, tutti avrebbero gridato al prodigio. Ma i prodigi non si possono compiere tutti i giorni.
Rivedevo le partite che ci avevano portato a questa finalissima e tornavo a vivere le mie prime impressioni del Messico.

A Durham, quattro anni prima, eravamo stati relegati in un collegio in piena campagna, sotto un cielo sempre color di piombo, e per giunta sistemati uno per stanza, ciò che accresceva il nostro senso di isolamento. L’ambiente, in Inghilterra, era così sgradevole che arrivavamo alle partite con i nervi a fior di pelle.

Qui invece l’albergo era accogliente, il sole splendeva senza mai dar fastidio e, quando l’attesa cominciava a pesare, c’era a due passi una grande città che offriva molte distrazioni. A metà circa del periodo di acclimatamento, l’allenatore decise di portarci una sera in un ristorante italiano, dove eravamo già stati in occasione della nostra precedente trasferta in Messico. Il proprietario del locale invitò anche tre cantanti, che dopo cena improvvisarono con i più disinvolti tra noi un ballo. Alla fine, ognuno ebbe un’ora di libertà, poi tutti rientrammo puntualmente in albergo a mezzanotte.

Nei primi giorni, in cui ci limitammo a una preparazione graduale e attentamente dosata, quasi non ci accorgemmo dell’altura. Il primo shock venne, in occasione dell’incontro di allenamento con il Toluca, il 24 maggio. In campo, a un quarto d’ora, mi sentii svuotato di energie, e come se qualcuno mi avesse colpito violentemente allo stomaco. Quarantacinque minuti di gioco bastarono per metterci a terra. Capimmo che si sarebbe dovuto modificare un po’ il ritmo del nostro gioco, tenendo più a lungo la palla, riducendo il numero degli scatti e prodigandoci in pochi fulminei a fondo. È quello che abbiamo cercato di fare soprattutto nelle partite iniziali del girone.

La partita con la Germania, definita da molti la più bella che abbiano giocato gli azzurri negli ultimi anni, fa caso a sé. È stata una partita piena di entusiasmo e di grinta, vorrei dire di coraggio, perché non è certo facile controbattere una squadra come quella tedesca che addirittura, nei tempi supplementari, parte in vantaggio.

Ma ci eravamo fatti uno spirito nuovo, era anche la serenità dell’ambiente che contribuiva: anzitutto, la maggior maturità nostra rispetto ai tempi dell’avventura inglese, e una migliore conoscenza delle nostre effettive possibilità; in secondo luogo, la grande lontananza dall’Italia che, impedendoci di ricevere ogni giorno i quotidiani, in certo senso ci isolava da ogni polemica; infine, la abilità e la diplomazia del presidente Franchi, il quale ha cercato di venire incontro a tutti i nostri desideri e ha subito sanato alcune situazioni potenzialmente pericolose. Anche il famoso caso Rivera fu, per quanto riguarda noi giocatori, una tempesta in un bicchier d’acqua.

Non abbiamo vinto la Rimet semplicemente perché ci siamo trovati di fronte alla più forte squadra di calcio del mondo, una squadra tuttavia che noi avremmo potuto anche contrastare, come ho già detto, se ci fossimo trovati in condizioni atletiche almeno pari ai gialli del Brasile. Essi invece sono entrati in campo in un maggiore stato di freschezza.

Una cosa credo che abbiamo dimostrato durante questi mondiali: cioè, che quando siamo ben preparati, noi italiani possiamo dare dei punti, in fatto di calcio, anche alle squadre nordiche e anche ai giocolieri del Sud America. Il merito spetta sia a Valcareggi, sia ai medici che hanno saputo «carburarci», date le condizioni ambientali, sia all’ottima riuscita del «ritiro» messicano. Questi sono stati mondiali preparati scientificamente, con una programmazione spinta fin nei minimi particolari, anche quelli dello svago. Nulla è stato lasciato al caso.

Non sono invece del parere che vi sia stata una subitanea rinascita del cosiddetto «spirito di Vittorio Pozzo» e che a questo ritrovato attaccamento alla bandiera sia dovuto, almeno in parte, il nostro successo. La verità è che tutti i giocatori della mia generazione hanno tenuto sempre moltissimo alla Nazionale.

Chi, dopo la Corea, ci scrisse lettere di insulti, dicendo che dopo quanto era accaduto si vergognava di essere italiano, non si è reso conto che noi soffrimmo infinitamente. Oggi i nostri denigratori di quattro anni fa non meritano di partecipare alla soddisfazione, che noi proviamo, di aver ottenuto se non altro la conferma del primato in campo europeo.

Desidero chiudere queste note con alcuni ricordi personali. Il primo riguarda una famiglia di immigrati veronesi, che dopo la partita con Israele invitò a una cena italiana me e cinque o sei altri giocatori, e poi, sostenendo che la loro compagnia ci aveva portato fortuna, ripeté l’invito a ogni incontro, fino alla finale. Il secondo si riferisce a un articolo apparso in un giornale messicano, che raccontava come mia figlia, parlandomi al telefono, avesse espresso il desiderio di uno di «quei grandi cappelli» che si portano quaggiù.

La cosa ovviamente era inventata, perché mia figlia non ha ancora due anni e degli usi e costumi del Messico può saper ben poco o nulla. Ma il risultato fu che tanti sconosciuti mi inviarono sombreri, ponchi e bambolotti e che ho dovuto comperare una valigia, poiché voglio portarli tutti a casa.

Infine, la spedizione messicana ha coinciso con le mie nozze d’oro in Nazionale. Ho giocato la mia cinquantesima partita azzurra contro il Messico e, dopo la finale con il Brasile, ho raggiunto quota 52, a portata del primato assoluto di 59 presenze del grande Caligaris che, coincidenza, giocava anche lui terzino sinistro.

Se un giorno il periodo che sono stato capitano della Nazionale, verrà ricordato come la seconda epoca d’oro del nostro calcio, questa sarà la più grande soddisfazione della mia vita.

(testo raccolto da Livio Caputo)

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