Olive e Bulloni, a Parigi l'omaggio ad Ando Gilardi
© Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi
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Olive e Bulloni, a Parigi l'omaggio ad Ando Gilardi

L'Istituto Italiano di Cultura ospita una mostra dedicata al grande fotografo e storico della fotografia, scomparso quasi novantenne lo scorso 5 marzo

La mostra Olive & bulloni. Lavoro contadino e operaio nell’Italia del dopoguerra (1950-1962) è arrivata a Parigi, accolta dall’Istituto Italiano di Cultura per rendere omaggio ad Ando Gilardi, uno dei grandi maestri della fotografia italiana, scomparso quasi novantenne lo scorso 5 marzo.

Già ospitata dalla Fondazione Benetton di Treviso e dalla Fondazione Corrente di Milano, Olive & bulloni si compone di una serie di fotografie storiche, realizzate tra gli anni '50 e '60, di pubblicazioni e documenti d’epoca - tra cui alcuni numeri del  Lavoro, di cui Gilardi è stato redattore - e del film-intervistaPiedi scalzi mani nere. Braccianti e operai degli anni ’50 nei reportage di Ando Gilardi, a cura di Giuliano Grasso.

Inaugurata il 7 giugno, la mostra - curata da Fabrizio Urettini - sarà aperta fino al 24 agosto. Il catalogo è in vendita sul sito della Fototeca Storica Nazionale.

Figura carismatica e controcorrente, per molti versi eretica, nato nel 1921 ad Arquata Scrivia, in provincia di Alessandria, Ando Gilardi inizia ad occuparsi di fotografia nell'immediato dopoguerra, restaurando e riproducendo le immagini fotografiche degli eccidi in collaborazione con una commissione interalleata impegnata  a raccogliere prove per i processi ai criminali nazi-fascisti. Lavora in seguito come cronista per l’Unità e poi con i rotocalchi Vie Nuove e Lavoro. Per quest'ultimo, periodico CGIL fondato da Giuseppe Di Vittorio, lavora non solo come giornalista ma anche come fotoreporter, per la prima volta in modo ufficiale: dal 1952 viaggia in tutta l’Italia, fotografando e raccontando vicende e lotte di operai, minatori, contadini, braccianti e delle loro famiglie. Tra gli anni '50 e '60, collabora tra gli altri con l'antropologo Ernesto de Martino, che accompagna nella sua spedizione in Lucania del 1957, all’origine di Sud e Magia .

Nel 1962 fonda a Roma la Fototeca Storica Nazionale, che oggi porta il suo nome. Dal 1962 si dedica esclusivamente alla fotografia, da fotografo, editore (fu fondatore di riviste memorabili e irriverenti) e organizzatore di mostre ed eventi. Negli anni settanta, al suo lavoro di fotografo si affiancano quelli di storico della fotografia, saggista e insegnante. Pioniere degli studi italiani sulla fotografia, pubblica testi fondamentali sulle comunicazioni visive, tra i quali la monumentale Storia sociale della fotografiadel 1976 e svariati studi sui filoni della fotografia prima di allora non ritenuti degni di attenzione, come Wanted! Storia, Tecnica ed Estetica nella Fotografia Criminale Segnaletica e Giudiziariae Storia della fotografia pornografica.

Tornato nel suo Piemonte, per problemi di salute, dal 1993 continuerà a fornire i suoi contribuire agli studi nel campo fotografico attraverso internet, dalla sua casa di Ponzone (un paesino di mille abitanti, in cima a una collina nel Monferrato), sperimentando in prima persona le nuove tecniche di produzione digitale e svolgendo una ricerca personale sulle implicazioni artistiche delle tecniche di fotografia digitale, redigendo per l'intero 2007 un diario giornaliero di laboratorio, fino a concepire, nell’agosto del 2008, un suo canale personale su youtube, TubArt , e ad approdare nel 2010 su Facebook dove oltre 1800 amici hanno assistito quasi in diretta alla conclusione del suo straordinario viaggio su questa Terra.

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OLIVE & BULLONI  raccontata da Ando Gilardi

Tre amici Patrizia, Elena e Fabrizio hanno, senza dirmelo prima, deciso di fare una mostra con le fotografie che presi dal Nord al Sud dell’Italia dal 1950 al 1962 come fotografo scalzo, così mi dicevo rubando il nome ai medici scalzi cinesi di Mao. In Cina negli anni di allora furono insegnati rudimenti di medicina a molti contadini, per creare una presenza medica nell’intero paese, e ancora oggi gli scalzi sono gli unici medici nelle estreme zone rurali.

Ho avuto la fortuna immensa per un fotografo scalzo di essere stato il fotografo se non ufficiale ufficioso della CGIL negli anni 50, e di avere raccolto per il suo settimanale a rotocalco Lavoro — oggi più interessante per l’antropologia che per altro — gli ultimi documenti fotografici sulla fine, diciamo pure sull’estinzione, delle tre grandi classi del proletariato italiano. Ora: in Italia dagli anni 1950 al 1962 persero il proprio lavoro  sette/otto milioni di proletari, sono le cifre ufficiali. Solo una parte erano organizzati dai sindacati, forse la metà, altri non lo erano. Gli organizzati cominciarono una durissima lotta sindacale, e questa è la “fortuna” di chi dipende da un datore di lavoro: che può scioperare manifestare agitare bandiere rosse e cartelli e occupare la fabbrica, che è sempre meglio di niente.
I non organizzati lottarono anche loro ma come nella lotta libera può farlo uno che è senza né braccia e né gambe.
La guerra — come si diceva una volta — per il pane dei figli, si concluse con una sconfitta epocale: sparirono, letteralmente si estinsero socialmente le tre grandi classi del proletariato storico, quella degli operai, quella dei braccianti salariati agricoli e quella dei — senza terra, senza uno straccio di contratto e di sindacato — i cosiddetti cafoni del Sud.

Le cifre sommarie che parlano di queste tre classi nel secolo scorso sono interessanti: negli anni Venti si aveva in Italia 1 operaio ogni 6 contadini e braccianti-senza-niente; alla vigilia della seconda guerra mondiale il rapporto era già mutato da 1 a 3. L’economia di guerra aveva moltiplicato le fabbriche e nel dopoguerra il rapporto era già diventato quasi alla pari; ma tuttavia il numero dei lavoratori, e dei disoccupati  dei campi, rimase ancora più numeroso di quello delle officine fino ai primi degli anni Cinquanta quando, come dicevo, ebbe inizio la veloce estinzione delle tre classi. Io ho fotografato le lotte e proteste per impedirlo senza riuscirvi e in questa mostra ci sono documenti di una sconfitta epocale.

Un fatto curioso è che le classi sociali, le loro organizzazioni, non si estinsero politicamente: succede egualmente per le stelle lontane, che quando si estinguono la loro luce continua nel tempo a brillare.
Quella del proletariato italiano fu una sconfitta epocale: la notte di una grande ragione. Dove continua a risplendere, ma ora è prossimo spegnersi, il lumicino piccino piccino che più di così non si può, del suo fotografo scalzo e aggiungo senza una gamba, il quale si rese conto dei fatti, e come prova la mostra, visse dodici anni saltellando qui e là per l’Italia per prenderne le fotografie.

Parliamo un momento di loro. Vorrei far riflettere chi visita questa mostra e attirare la sua attenzione su alcuni dettagli: in molte istantanee si vedono asini e muli, ebbene nel tempo in cui sono state riprese, il numero di questi mezzi di trasporto era nel Mezzogiorno superiore di dieci volte a quello delle automobili.
In molti paesi e faccio il caso di Albano di Lucania allora con circa 3.000 abitanti, quando il sindaco che abitava a Potenza veniva a far visita ai suoi amministrati, i cittadini correvano in piazza per vedere la macchina che camminava da sola. Il sindaco che era un simpatico ragazzo e quasi un amico, mi raccontava, e se non mi credete pazienza, di avere vinto le elezioni facile facile, per aver mostrato alla gente durante un comizio, un foglio di carta moneta da mille lire.
Per ciascuna di queste istantanee e delle altre mille che come fotografo scalzo ho preso in quegli anni fatali nel Nord e nel Sud, potrei raccontare più di una storia così, ripeto che forse pare incredibile però vi assicuro che è vera.

Ma il bello è questo che segue: il tempo i fatti e i milioni di mutilati del proprio lavoro di quel periodo, furono e sono poi ricordati dalla stampa, dalla televisione e in tutta l’informazione “sociale” come il “miracolo economico italiano”! Il quale è una immensa fossa comune dove sono sepolti e dimenticati i nomi e le storie di quelle che i testi ufficiali chiamano “unità produttive”:  nelle mille istantanee del fotografo scalzo si salvarono le loro facce.

Ecco perché come ho detto non avrei approvato la mostra: per lasciare riposare in pace quei miei compagni e compagne che ho inquadrato, con i loro cartelli le loro bandiere, dentro alle fabbriche spente in attesa del nulla, o seduti attorno a chi leggeva il giornale (il solo che parlasse di loro) a quelli che non sapevano leggere.  
Io non volevo tornare a vedere le immagini dei loro bambini, “scalzi” come il fotografo che li inquadrava, che ridevano allegri e che meritavano un futuro tanto ma tanto migliore. Questa allegria dei bambini di allora è stata davvero il grande miracolo degli anni lontani.

Adesso la mostra del fotografo scalzo è pronta e aperta, ha un grande un lussuoso catalogo, e dire devo pur grazie a Patrizia, Elena e Fabrizio. Mi dicono che a guardare le istantanee ci va della gente, la quale oggi vive e forse senza saperlo un altro “miracolo all’italiana” appena al principio. Perché viene aperta, e mica riesco a non dirlo, un’altra fossa comune: la cosa che più mi fa ridere è che ce lo dicono proprio quelli che l’hanno scavata. E per la tradizione del nostro mestiere speriamo che ancora si trovi a raccontarlo un fotografo scalzo, ma con buone gambe, un nuovo collega Aasverus con tanto di digitale.

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