I brevetti bloccano l'innovazione. Lo dimostra il caso Apple contro Samsung
Economia

I brevetti bloccano l'innovazione. Lo dimostra il caso Apple contro Samsung

Almeno per quel che riguarda l'hi-tech, il mondo dovrebbe ripensare il modello con cui oggi si attribuisce il copyright di ogni piccola invenzione

Appena un paio di giorni fa il tribunale federale di San Jose, in California, ha condannato Samsung a risarcire Apple con ben 1,05 miliardi di dollari. La sua colpa? Aver violato una serie di brevetti relativi agli iPhone e iPad prodotti dalla casa di Cupertino. Una sentenza che è già stata definita storica e che rischia di compromettere per sempre il futuro dell'innovazione nel comparto dell'hi-tech. A meno che la Samsung non trovi argomenti validi per convincere la giuria a ribaltare il verdetto. Riconoscendo che, per il bene della ricerca, della concorrenza e dei consumatori, sarebbe opportuno rivedere il modo in cui vengono concepiti i brevetti nel settore.

E' possibile che, alla fine, sarà proprio l'intransigenza della Mela morsicata (che, non contenta del maxi riarcimento ha chiesto che venisse bloccata negli Stati Uniti la vendita dei prodotti Samsung oggetto della vertenza) a favorire la difesa della Samsung. Anche se in un contesto americano non è così scontato che giudici e giuria scelgano di schierarsi dalla parte degli asiatici.

Allo stesso tempo, un precedente statunitense di questo tipo sicuramente influenzerebbe le decisioni relative a qualsiasi caso simile in qualsiasi altro paese. Ecco perché è così importante riflettere sui retroscena e sulle conseguenze di un braccio di ferro che ormai va avanti da troppo tempo.

I due giganti dell'elettronica, che da soli controllano più della metà del mercato degli smartphone, si accusano a vicenda di aver violato brevetti relativi al design e al software dei rispettivi prodotti. Eppure, posti di fronte alla necessità di imporre risarcimenti milionari a chi avrebbe copiato tasti e funzioni fregandosene del copyright di chi li ha effettivamente sviluppati, i giudici dei tribunali della California e non solo dovrebbero interrogarsi soprattutto su se sia questo il modo migliore per favorire ricerca e sviluppo.

Quando si parla di brevetti il confronto con quello che succede in ambito farmaceutico è immediato. Le case che brevettano un nuovo medicinale sono autorizzate dalla legge americana a venderlo in esclusiva per i vent'anni successivi. Ripagando in questo modo gli studi e i test che sono stati necessari per sintetizzare l'efficace ricetta.

Per quanto sia ampiamente riconosciuto che prima di chiedere il brevetto su un farmaco l'azienda che si occupa della sua produzione deve sostenere spese altissime prima per realizzarlo e poi per testarlo, da qualche tempo il diritto ai vent'anni di esclusività ha iniziato a essere messo in discussione da chi ritiene che ne basterebbero dieci per recuperare l'investimento iniziate e assicurarsi comunque ricavi più che generosi. Lasciando così più spazio alla concorrenza e, ancora più importante, favorendo i consumatori potenziando la distribuzione di farmaci simili a prezzi ben più vantaggiosi.

Ciò di cui tanti sembrano non essersi ancora resi conto è che il mondo dell'hi-tech non funziona come quello della medicina. E non solo perché alla base di ogni innovazione non ci sono test clinica da organizzare. In questo caso il vantaggio è dato dalla novità stessa. O meglio, dal momento in cui questa viene messa sul mercato. Da chi può offrirla ai consumatori prima di ogni altro concorrente.

In un contesto di questo tipo, e tenendo presente che la tecnologia può fare progressi solo partendo dall'ultima scoperta realizzata, non creando ogni volta qualcosa di "completamente nuovo", è evidente che impedire con un brevetto che altre aziende possano continuare la ricerca dal punto in cui essa è arrivata significa bloccare indirettamente l'innovazione. Ovvero ricreare una situazione di monopolio assoluto in cui solo chi ha ottenuto il primo brevetto può permettersi di continuare a sfruttare la propria scoperta per realizzarne altre. Consolidando un sistema che favorisce le aziende, non l’innovazione. E tantomeno i consumatori.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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