Chuck Rossi, l’unico uomo al mondo che può dire 'non mi piace' a Zuckerberg
Economia

Chuck Rossi, l’unico uomo al mondo che può dire 'non mi piace' a Zuckerberg

È l’ingegnere di origini italiane che nel quartier generale di Facebook decide quali innovazioni passano e quali no, in nome del business

Nel profilo Facebook di Chuck Rossi c’è una funzione che il restante miliardo di utenti può soltanto sognare: il tasto «non mi piace». Chuck non lo usa per taggare le foto brutte degli amici, ma per giudicare il lavoro dei 500 ingegneri che dirige nel quartier generale di Menlo Park, in California, la squadra che dietro le quinte manovra in silenzio i fili del social network. Rossi, 50 anni, è il «release engineer» di Facebook: la sua figura professionale esiste solo nella Silicon valley, ha il compito di controllare e aggiustare continuamente il codice che permette a un settimo della popolazione mondiale di chiedere e ricevere amicizie, scorrere immagini, postare elementi nella bacheca, chattare, taggare, farsi i fatti degli altri e così via.

Nessuno si accorge a occhio nudo del suo lavoro, ma Facebook senza Rossi sarebbe ancora un’idea da dormitorio di Harvard, non la macchina perfetta che gestisce un’infinità di dati e genera un sacco di soldi. Il release engineer è quello che osserva i numeri di questo enorme Matrix scorrere sullo schermo ed è in grado di decifrarli; è il demiurgo che vede tutti gli errori del suo mondo virtuale e trova il modo migliore per risolverli. Notare bene: il modo migliore, non un modo qualsiasi, ed è per questo che ha il tasto «non mi piace».

Ogni ingegnere nella squadra di Facebook gli spedisce le sue proposte per correggere il codice. Rossi le vaglia una per una e trattiene le migliori: a tutte le altre tocca il «non mi piace». E la decisione non è senza conseguenze. In Facebook ogni tecnico inizia a lavorare con quattro stelle nel profilo, ma ogni volta che Rossi boccia una proposta l’autore perde mezza stella; quando si arriva a due stelle scatta il corso di aggiornamento obbligatorio, oppure l’azienda considera opzioni più drastiche. Le bottiglie di scotch, whisky e altri alcolici che Rossi tiene in ufficio sono altrettanti segni tangibili dei continui (innocenti) tentativi di corruzione da parte dei sottoposti che vogliono conservare le loro stelle.

Le innovazioni valide vengono incorporate nel «push», il meccanismo che aggiorna il codice di Facebook due volte al giorno. Ogni martedì la squadra di Rossi conduce un «big push» con gli aggiornamenti più importanti. Nel suo dipartimento, spiega nei seminari e nei corsi di aggiornamento, si lavora su una scala «enorme» e a una velocità «smodata», dove velocità smodata è una citazione dal film Balle spaziali di Mel Brooks, piccolo estratto della cultura pop che domina l’ambiente.

Nessun utente si accorge del push, ma è la componente essenziale dell’impero Facebook. In genere si vede soltanto Mark Zuckerberg in maglietta che fra un incontro alla Casa Bianca e un’analisi di bilancio presenta prodotti nuovi. Rossi invece ci porta nel cuore del social network. Parlando con Panorama nella sede di New York, l’ingegnere spiega che «meno vedo Zuck e meglio è». Se il fondatore non si palesa dalle parti della sua scrivania, questo significa che tutto procede per il verso giusto, che il push tiene vivo il sistema e Zuckerberg può tranquillamente coltivare le relazioni che servono e occuparsi soltanto dell’innovazione.

Le origini italiane dell’ingegnere, cresciuto a New York e catapultato dalle parti di San Francisco molto prima della bolla della new economy, sono evidenti: «Una parte della mia famiglia è di Roma, un altro ramo viene invece da Benevento» racconta. Per non farsi mancare l’aria di casa ha sposato un’italiana. La strada che lo ha portato a Facebook è lunga e passa per le aziende che hanno fatto la storia della Silicon Valley: Rossi ha iniziato all’Ibm, è passato alla Silicon Graphics (l’azienda che negli anni Novanta ha rivoluzionato il design 3D: il film Jurassic Park è venuto fuori da lì); poi Google gli ha fatto un’offerta che non poteva rifiutare. Nel 2008 Facebook ne ha fatta una ancora migliore e, sebbene allora avesse «soltanto» 16 milioni di utenti, Rossi ha capito subito che l’azienda di Zuckerberg era (parole sue) «la migliore da un punto di vista ingegneristico e delle infrastrutture». Spiega Chuck: «Voi vedete il prodotto da fuori, ma dentro c’è un lavoro ingegneristico che non ha pari nella Silicon valley. Qui facciamo fra le 50 e le 300 modifiche del codice al giorno, divise in due push. Quando ero alla Google, facevamo un cambiamento ogni due settimane. Qui la struttura stessa dell’azienda è pensata per migliorare continuamente il prodotto».

Nella sua stanza, ingombra di massime della filosofia Facebook (tipo: «Fatto è meglio di perfetto», o «Il rischio maggiore che puoi correre è non correre rischi»), Rossi spiega quali sono le sfide di Facebook per il futuro, che poi si riassumono in una parola soltanto: mobile. «La struttura dell’azienda» dice «si sta adattando alla sfida delle applicazioni per gli smartphone, tutti siamo focalizzati sull’obiettivo. E abbiamo un gruppo di ingegneri che lavora esclusivamente su questo. Stiamo lavorando per migliorare tutte le app di Facebook, esattamente come facciamo per la versione desktop, e ci si sta aprendo davanti un mondo. Finora abbiamo soltanto iniziato a grattare la superficie».

In effetti il social network ha iniziato a fare profitti anche sui cosiddetti device: nel terzo trimestre 2012 il 14 per cento degli introiti pubblicitari (cioè 150 milioni di dollari) è arrivato da quel settore, contro i 50 milioni del trimestre precedente e i 40 di quello ancora prima, e Zuckerberg sta iniziando a smontare il mito che l’azienda non possa guadagnare dalle applicazioni sugli smartphone. Se la turbolenta quotazione a Wall Street aveva alimentato i sospetti che Facebook fosse soltanto una bolla in procinto di scoppiare, i ricavi per ora dicono che l’azienda è in salute e la sua strategia inizia a generare profitti all’altezza degli investimenti.

David Kirkpatrick, l’analista finanziario autore del libro The Facebook effect, dice a Panorama che la quotazione è stata «un fallimento del marchio, non un fallimento finanziario. Ma mettiamo pure che la delusione dell’ingresso in borsa abbia allontanato alcuni investitori occidentali: c’è comunque tutto un mondo in via di sviluppo che non vede l’ora di usare Facebook. Cala da una parte, insomma, ma cresce dall’altra». Secondo l’analista, quindi, l’azienda ha ancora un potenziale enorme di crescita, perché «non è soltanto un social network o un sito, ma è un’infrastruttura della rete. Nessun altro concorrente è in grado di pensare a se stesso con un ruolo simile. Anche perché se guardiamo bene, di concorrenti all’altezza non se ne trovano».

Kirkpatrick racconta in termini descrittivi quello che Rossi spiega con il linguaggio dell’ingegneria, fatto di continui push, di codici in costante aggiornamento che hanno ancora infinite combinazioni da provare per migliorare il prodotto. Da fuori Facebook sembra una struttura che non cambia mai, bisognosa soltanto di marketing e di qualche aggiornamento di tanto in tanto; da dentro è un fiume che scorre continuamente, sempre identico a se stesso e tuttavia sempre nuovo grazie al lavoro silenzioso di Rossi e dei suoi ingegneri. Non ci si bagna due volte nel fiume di Facebook.

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Mattia Ferraresi