Canone Rai, da tassa arcaica a tassa occulta
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Economia

Canone Rai, da tassa arcaica a tassa occulta

Nato come corrispettivo di un servizio, diventato un’imposta per il possesso della tv, ora rischia di estendersi a chi paga l’elettricità

di Serena Sileoni*

Il canone Rai è stato sempre un tributo, per usare un eufemismo, stravagante. Nato come corrispettivo economico di un servizio essenziale, trasformato poi in una imposta dovuta a prescindere dalla fruizione del servizio e ora destinato, forse, a essere pagato insieme alla luce, esso è la sintesi perfetta di quello che il diritto tributario, se vero diritto fosse, non dovrebbe consentire.

In tempi in cui la limitatezza tecnica dell’offerta ha spinto l’Italia verso il monopolio televisivo, il canone doveva rappresentare il corrispettivo per poter vedere i canali di Stato, gli unici esistenti. Una volta caduto il monopolio statale, si è comunque giustificato ritenendo che le nuove possibilità offerte dall’innovazione tecnologica non avessero fatto venir meno specifici obblighi di servizio pubblico, nel convincimento, opinabile guardando alla storia della televisione italiana, che solo lo Stato potesse essere veicolo di un’informazione corretta, imparziale, completa e adeguata.

Per superare le obiezioni di quanti pretendevano di non dover pagare il canone al tenere spento il televisore o al non vedere i canali Rai, ci hanno detto che il canone, da corrispettivo per un servizio, era diventato una tassa, o meglio ancora una imposta, un tributo dovuto per il solo possesso della televisione. Ora si discute un doppio ampliamento del tributo. In un primo senso, lo si vorrebbe far pagare anche ai detentori di qualsiasi dispositivo che possa consentire la visione della Rai. Se la tv difficilmente serve ad altro, smartphone e iPad servono a mille cose prima che a vedere le trasmissioni Rai. A telefonare o a leggere le mail, tanto per citare le prime due. La presunzione, già arbitrariamente applicata al televisore, per cui il possesso giustifica la fruizione del servizio sarebbe del tutto fittizia.

In un secondo senso, molto più gravemente dal punto di vista dello stato di salute del diritto tributario, inserire il canone nella bolletta dell’elettricità vuol dire mischiare pere e mele, confondere le persone nella comprensione di cosa stanno pagando e così impedire loro di obiettare di doverlo versare, laddove non dovuto. L’imposta si mescolerebbe infatti a tante altre voci, già difficili da comprendere ma accomunate almeno dal fatto di essere dovute per la fornitura di elettricità. In mezzo a queste voci, essa diventerebbe una tassa occulta. L’aberrazione principale, tuttavia, riguarda non i dettagli, ma la ragione di questo tentativo di ampliamento.

Perché si vuol far pagare il canone in bolletta? Cosa unisce l’uno all’altra? Dire che metterla in bolletta eliminerebbe l’evasione del canone è improprio. Perché includerla nella tariffa per l’elettricità renderebbe praticamente certo il suo pagamento non solo da parte degli eventuali evasori, ma anche di chi non la deve, mescolando, come si è detto, le mele con le pere, in contraddizione col principio di trasparenza che un inascoltato statuto del contribuente vorrebbe baluardo contro l’arbitrio sovrano.

* vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni

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