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ANSA/ANGELO CARCONI
Economia

Renzi, i conti non tornano

Tasse, spesa pubblica, debito-pil: tutto doveva diminuire. Ma così non è stato. Numeri alla mano, il flop delle promesse del presidente del Consiglio

Mille giorni. Sembrava un intervallo di tempo molto lungo, quando nel 2014 Matteo Renzi ebbe ad annunciare le mirabolanti imprese che il suo governo si preparava a compiere. Decine di miliardi di tasse in meno in pochi anni, decine di miliardi di risparmi di spesa (spending review), ritorno alla crescita dopo gli anni bui della crisi. Era giusto dargli tempo e non giudicarlo subito, è doveroso valutarlo adesso che i primi mille giorni del suo governo sono passati.

A colpi di slide
Quando si stilano bilanci politici, è molto facile manipolare il racconto. Bastano 20 slide, e tu ci metti solo cose che sembrano essere andate per il verso giusto, e non ci metti tutto quel che è andato storto. Con l'economia, però, un vantaggio c'è. Anche se puoi elencare decine di misure più o meno benemerite, esiste anche un modo per tenere conto del complesso dei cambiamenti che sono avvenuti. Basta scegliere pochi indicatori sintetici, che riassumono quel che è successo.

Per esempio la crescita del Pil. Prima di Renzi, su 28 Paesi dell'Unione Europea oscillavamo tra il terz'ultimo posto e metà classifica (nel 2010, ad esempio, il Pil dell'Italia era cresciuto di più di quello di altri Paesi dell'Unione). Nel 2104, anno di transizione fra governo Letta e governo Renzi, siamo al quartultimo posto. Nel 2015, primo anno completamente "renziano" siamo al terzultimo posto. Nel 2016 saremo al penultimo posto (solo la Grecia farà peggio di noi: meno 0,3 per cento, contro il nostro più 0,8, se verrà mantenuta la tendenza rilevata martedì 15 novembre dall'Istat). Nel 2017, secondo la Commissione europea, saremo ancora penultimi (più 0,9, di un soffio davanti alla Finlandia), e nel 2018 addirittura ultimi (più 1: unico Paese europeo destinato a non superare l'un per cento).

Dunque, dal 2014 al 2018: 4-3-2-2-1, dal quart'ultimo all'ultimo posto in 5 anni, niente male come "spinta" alla crescita impressa dalle riforme. Non ci resta che sperare che a Bruxelles abbiano preso un abbaglio, almeno sul biennio 2017-2018 (sul 2016 è molto più difficile sbagliare, visto che è quasi finito).

Gli altri indicatori
Ma perché fermarci al Pil? Di indicatori sintetici dell'andamento di un'economia ce ne sono almeno altri cinque. Le entrate, ossia le tasse; le uscite, ossia la spesa pubblica; l'avanzo primario e il deficit, ossia la differenza fra entrate e uscite (rispettivamente al nettoe al lordo degli interessi sul debito pubblico); il rapporto debito-Pil. Su tutto questo è il caso di ricordare le principali promesse di Renzi: decine di miliardi di tasse in meno; decine di miliardi di spese in meno (la famigerata spending review); riduzione del rapporto debito-Pil dal 2016.

E ora vediamo come sono andate le cose.

Tasse
Stando ai dati ufficiali Istat, fra il 2014 e il 2015 le entrate complessive della pubblica amministrazione sono aumentate di 8 miliardi. Sul 2016 e il 2017 è tutto un balletto di cifre, ma dalle ultime tabelle ufficiali della manovra (per il 2016 ci siamo basati sul Documento programmatico di bilancio 2017) risulta circa 1 miliardo di tasse in più fra il 2015 e il 2016, e 10 miliardi in più fra il 2016 e il 2017. Se queste previsioni si realizzeranno, il bilancio del primo triennio renziano (dal 2014 al 2017), sarà di 19 miliardi di tasse in più.

Spesa pubblica
Al netto degli interessi sul debito, la spesa pubblica risulta aumentata di circa 9 miliardi nel 2015, ed è prevista in aumento di circa 1 miliardo fra il 2015 e il 2016, e di 12 miliardi nel 2017. Se queste previsioni si realizzeranno, il bilancio del primo triennio renziano (dal 2014 al 2017), sarà di 22 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva.

Avanzo primario
Come conseguenza di queste scelte, il governo prevede che l'avanzo primario, già sceso di 600 milioni fra il 2014 e il 2015, peggiori ulteriormente di 300 milioni nel 2016 e di 2 miliardi nel 2017: era di circa 26 miliardi nel 2014, scenderà a 23 nel 2017.

Deficit
L'avanzo primario serve innanzitutto a pagare gli interessi sul nostro enorme debito pubblico. Ma poiché gli interessi sono pari a circa 65 miliardi l'anno, e l'avanzo primario è di circa 25 miliardi di euro, c'è uno scoperto di 40 miliardi (65 meno 25). Questo scoperto, pari al 2,4 per cento del Pil, è il cosiddetto "indebitamento netto della pubblica amministrazione", ovvero il nostro deficit pubblico.

Debito pubblico
La promessa di ridurre il rapporto debito-Pil non potrà essere mantenuta né nel 2016 né, secondo la Commissione europea, nel 2017. La ragione è molto semplice: il ritmo a cui lo Stato e le amministrazioni locali fanno debiti è superiore al ritmo di crescita del Pil nominale, che a sua volta è inferiore a quello previsto dal governo. Si potrebbe obiettare che queste sono cifre assolute, e che un po' di tasse e spesa pubblica in più andrebbero commisurate alla crescita del reddito reale, dei prezzi, della popolazione.

Purtroppo per un calcolo preciso del reddito disponibile si dovranno attendere i dati ufficiali Istat del 2016 e del 2017, ma intanto una cosa la si può dire senz'altro: fra il 2014 e il 2016 il livello dei prezzi è rimasto sostanzialmente invariato, e la popolazione italiana è diminuita di circa 120 mila abitanti, dunque le tasse non solo sono aumentare ma si sono spalmate su un minor numero di persone. In media nel 2014 la pubblica amministrazione incassava 12 mila 778 euro per abitante, nel 2016 ne incassa 12 mila 956, dunque 178 in più a persona (compresi pensionati, casalinghe, studenti, bambini e neonati).

Per il 2017 non si sa ancora con precisione, ma se l'andamento demografico fosse quello medio degli ultimi due anni, e la pubblica amministrazione dovesse davvero incassare le cifre indicate nella Legge di bilancio, il prelievo per abitante salirebbe a 13 mila 134 euro, ovvero 356 euro in più (più 2,8 per cento) rispetto a tre anni prima.

Perché, dopo aver promesso di ridurre tasse e spese, il governo Renzi non lo ha fatto? Perché non ha esitato ad aumentare il nostro debito pubblico al ritmo di 60 miliardi l'anno? La ragione è la solita: la finanza allegra dei governi la pagheranno i nostri figli e nipoti, non appena i mercati finanziari presenteranno il conto, mentre i costi di una politica di contenimento della spesa rischierebbe di pagarli il governo in carica, sotto forma di minore consenso elettorale. L'ansia da referendum, che porta a moltiplicare mance, bonus e sussidi, ha fatto il resto.

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Luca Ricolfi