I danni (anche politici) del compromesso sul Job Act
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Economia

I danni (anche politici) del compromesso sul Job Act

La legge, scritta con la minoranza Pd, non semplifica abbastanza e dimostra che nella narrazione sul governo "riformatore" c'è molta retorica

Forse Renzi ha fatto un passo falso del quale forse non si rende conto. Un passo falso politico ed economico, una scivolata sul tema più sensibile di tutti: l’occupazione. Mentre l’Istat certificava che la disoccupazione è arrivata al 13,2%, mai così alta da sempre, non dal 1977 (come ha dimostrato l’insostituibile Luca Ricolfi) con un totale di disoccupati pari a 3 milioni e 410mila persone a ottobre 2014, Renzi propone, e si avvia a fare approvare, una riforma del mercato del lavoro, il Job Act tra i cui punti qualificanti c’è il famoso articolo 18 che è uno dei motivi per i quali le imprese italiane rinunciano a crescere, (come spiega, con tutte le cautele del caso, uno studio pubblicato su lavoce.info. Secondo questo studio l’abolizione totale dell’articolo 18 potrebbe produrre un aumento degli occupati del 5%.

Ma l’articolo 18 è un punto qualificante perché si tratta della vera cartina di tornasole della volontà riformatrice del governo. Qui, su un tema che tocca da vicino che più vicino non si può, la vita delle persone, si capisce se siamo di fronte a un rivoluzionario a parole o a un riformatore vero. Ebbene: arrivato al dunque, cioè al tema del lavoro, Renzi ha avuto paura. Paura che la minoranza del Pd potesse effettivamente far saltare il Job Act e, per evitarlo, è sceso a patti con Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, ex Cgil (ça va sans dire) e mente politica della minoranza del partito per le questioni lavorative. Il compromesso trovato, e che ha convinto la minoranza Pd a votare il provvedimento, consiste nel confermare l’autorità giudiziaria nel ruolo di decisore ultimo riguardo la legittimità o meno di un licenziamento di tipo disciplinare. Tradotto: se un imprenditore decide di lasciare a casa un dipendente perché viola la legge, il contratto, il codice disciplinare dell’azienda o per gravi comportamenti colposi o manchevoli, e se il lavoratore fa ricorso, sarà il giudice a decidere chi ha ragione o meno e, se stabilisse che l’imprenditore ha torto, può obbligarlo a riassumere il lavoratore. Obbligo che nella prima versione della norma era escluso. Vero: il governo ha specificato che i decreti delegati conterranno i casi specifici, limitati e precisamente espressi, nei quali il reintegro sarà ammesso in modo da evitare quella discrezionalità da parte dei giudici che ha fatto del diritto del lavoro una lotteria. Ma a queste rassicurazioni si fa fatica a credere.

In ogni caso il compromesso sul Job Act, che questa settimana arriva al Senato per essere approvato definitivamente, ha diverse conseguenze. La prima è che la legge semplifica meno di quanto avrebbe dovuto semplificare: il “mitologico” investitore straniero che vuole aprire una fabbrica in Italia sa che comunque avrà a che fare, nel caso, con la giustizia italiana. E non è una bella prospettiva. Ma è il secondo effetto quello più importante: il compromesso sul Job Act, sia sull’applicazione del reintegro per i licenziamenti disciplinari che sulla platea alla quale si applica la riforma (non più a tutti ma solo ai nuovi assunti) dimostra che la carica riformatrice di Matteo Renzi è molto inferiore a quello che potrebbe apparire. Se si decide di rivoluzionare il mercato del lavoro, allora non si scende a patti, non si negozia, non si fanno compromessi. Se, invece, si crede (come il sottoscritto) che il problema principale del mercato del lavoro italiano non sia l’articolo 18 post-riforma Fornero, ma le tasse, la burocrazia e la giustizia civile, allora è sbagliato, politicamente, caricare di tante aspettatiuve una riforma che, alla prova dei fatti, rischia di confondere ancora di più le idee alle imprese. Ma, soprattutto, il compromesso al ribasso stipulato sul Job Act allarma perché se anche sulla giustizia il governo decidesse di scendere a patti, vorrà dire che la retorica del #cambiaverso è, appunto, solo retorica. 

P.S. Che ne penserà Cesare Damiano della Cgil che promuove uno sciopero generale contro una legge che ha contribuito a scrivere?

 

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Marco Cobianchi

Sono nato, del tutto casualmente, a Milano, ma a 3 anni sono tornato a casa, tra Rimini e Forlì e a 6 avevo già deciso che avrei fatto il giornalista. Ho scritto un po' di libri di economia tra i quali Bluff (Orme, 2009),  Mani Bucate (Chiarelettere 2011), Nati corrotti (Chiarelettere, 2012) e, l'ultimo, American Dream-Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat (Chiarelettere, 2014), un'inchiesta sugli ultimi 10 anni della casa torinese. Nel 2012 ho ideato e condotto su Rai2 Num3r1, la prima trasmissione tv basata sul data journalism applicato ai temi di economia. Penso che nei testi dei Nomadi, di Guccini e di Bennato ci sia la summa filosofico-esistenziale dell'homo erectus. Leggo solo saggi perché i romanzi sono frutto della fantasia e la poesia, tranne quella immortale di Leopardi, mi annoia da morire. Sono sposato e, grazie alla fattiva collaborazione di mia moglie, sono papà di Valeria e Nicolò secondo i quali, a 47 anni, uno è già old economy.

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