La terza rivoluzione industriale parte dagli Stati Uniti
Economia

La terza rivoluzione industriale parte dagli Stati Uniti

L'America punta su energia a basso costo e tecnologia per trasformarsi nella nuova fabbrica del mondo

Nell'era della tecnologia, anche la classica catena di montaggio diventa 2.0 e si adatta alle esigenze di un pianeta globalizzato. Trasformando gli Stati Uniti nella nuova grande fabbrica del mondo del terzo millennio.

Avete capito bene: fra qualche anno il centro della produzione industriale non sarà più la Repubblica popolare cinese ma l'America. O almeno questo è ciò che sostiene Washington. Che sul grande ritorno delle etichette Made in USA sta fondando il sogno di una sempre più rapida (e prossima) ripresa.

I dati non lo confermerebbero (nel mese di marzo l'economia è riuscita a creare solo 88mila nuovi posti di lavoro, troppo pochi per permettere di affermare che l'allarme disoccupazione sia passato o stia per passare), ma il fatto che sempre più aziende abbiano deciso di ritrasferire i propri impianti in Occidente è certamente un segnale positivo da non sottovalutare. Anche perché non stiamo parlando di piccoli stabilimenti, ma di colossi come Apple, Walmart e Airbus, tanto per citare un paio di nomi noti.

Quali sono i motivi che rendono gli Stati Uniti di oggi un paese in cui è conveniente produrre? Di certo non salari da fame o condizioni di lavoro al limite dell'accettabilità tipiche delle nazioni in via di sviluppo.

Alla base della nuova rivoluzione industriale americana c'è anzitutto il boom dello shale gas , che dovrebbe permettere alle aziende che producono negli Stati Uniti di tagliare in maniera significativa i costi energetici, che incidono sui bilanci anche quando si parla di trasporti.

Le nuove catene di montaggio 2.0, però, funzionano solo in aziende dove la tecnologia è dicasa. Che non assumono operai non specializzati per far loro produrre gli oggetti manualmente, ma laureati capaci di far funzionare le macchine che assemblano i singoli oggetti attraverso tablet e computer. Offrendo quindi nuove possibilità di impiego a tutti quei giovani (iper)qualificati che oggi fanno così tanta fatica a inserirsi sul mercato del lavoro.

Un team di economisti di Harvard avrebbe poi calcolato che il boom della produzione made in Americaavrebbe effetti positivi fortissimi sull'economia nazionale. Questo perché ad ogni dolaro di attività manifatturiera ne corrisponderebbero ben 1,48 di stimoli reali per l'economia.

Possibile che shale gas e tecnologie avanzate siano sufficienti agli Stati Uniti per ritrovarsi all'improvviso ad essere più competitivi dell'Europa e dell'Oriente? Anche se il nuovo Made in America non potrà funzionare per tutti i settori produttivi, l'America ha oggi la possibilità di riprendersi una grossa fetta della produzione mondiale. La Cina non è più competitiva su tutto, in particolare da quando il governo è stato costretto a fare proprie le rivendicazioni interne per salari più alti e condizioni di lavoro migliori. L'aumento del prezzo di risorse energetiche e materie prime ha fatto il resto. Rendendo il Made in China progressivamente meno conveniente. Cosa che ha spinto tanti a cercare delle alternative, in altri paesi emergenti ma anche in America.

E l'Europa? Purtroppo anche il Vecchio Continente non può competere con gli Usa sul piano della produzione industriale. Il costo del lavoro è più altro del 15 e a volte anche del 25%, mentre la tecnologizzazione delle catene di montaggio è, purtroppo, ancora un miraggio.

 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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