Oscar Giannino: tenetevi pronti alla manovra d’autunno
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Economia

Oscar Giannino: tenetevi pronti alla manovra d’autunno

La ripresa non arriva ma le spese sono già partite. E così Renzi sarà obbligato a intervenire. Con nuove tasse

Va bene che l’ottimismo è la fede delle rivoluzioni. Ma applicarlo ai conti pubblici italiani si è rivelato una fede manicomiale. È prassi inveterata che i premier e i ministri dell’Economia dicano "siamo in una botte di ferro". Tranne poi scoprire, da parte del contribuente chiamato a pareggiare con più tasse i conti che non tornano, che botte di ferro era sì, ma quella ferale dove stava rinchiuso Attilio Regolo. Guardiamo ai fatti. Le campane fatte risuonare dall’Ocse e dal Pil nel primo trimestre aprono per il dopo elezioni europee riflessioni obbligate. È la realtà che sta prendendo una piega diversa da quella attesa. E non è positiva.

L’Ocse, infatti, non ha ridotto a un risicatissimo 0,5 la crescita attesa dell’Italia nel 2014 perché sia un Bubo Bubo, cioè uno strigiforme gufo reale, bensì perché ha ribassato le attese di Usa, Cina, Giappone e Russia. L’Italia resta pur sempre uno dei soli cinque paesi con un attivo commerciale manifatturiero nell’export superiore ai 100 miliardi di dollari, tuttavia la frenata mondiale ci fa perdere proprio abbrivio nell’unico settore che da noi si difende bene, l’export appunto.

In più, ad andare peggio del previsto c’è mezza euroarea: il Pil italiano nel primo trimestre 2014 ha deluso ritraendosi dello 0,1, ma quello della Francia è a zero, quello olandese a -1,4. Il +0,4 spagnolo è falsato da una compressione dell’import figlio della deflazione, l’altro pericoloso fattore che mina i conti di mezza Europa. Il primo trimestre 2014 proietta per trascinamento nei tre successivi un Pil italiano a -0,2. Speriamo tutti in un rimbalzo positivo. Ma purtroppo la crisi della domanda interna resta forte, molto più forte che altrove.

L’indicatore di consumi di Confcommercio nel primo trimestre 2014 resta su base annuale più vicino al -3 che al -2, su un anno disastroso com’è stato il 2013. E il governo sa bene che l’effetto sulla domanda interna degli 80 euro concessi di bonus ai disoccupati e ai lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro lordi di reddito non è in grado certo di aggiungere il punto di Pil di consumi che manca.

Di conseguenza, i casi sono tre. Il primo è quello dell’improbabilità. Cioè di una svolta positiva tanto energica del commercio mondiale da farci riprendere quel che manca alla crescita 2014 per far tornare i conti previsti dal governo, in termini di entrate e stabilizzazione del debito. Il secondo è quello più concreto, e cioè rimettere mano prima che sia troppo tardi ai conti pubblici 2014. Quando già il Def ha chiesto a Bruxelles l’ok allo slittamento del pareggio strutturale di bilancio al 2015 (quello al netto del ciclo, non è il deficit zero). Il terzo è quello, molto rischioso, di puntare sul semestre di presidenza Ue per registrare un ulteriore compromesso al ribasso.

Approfittando soprattutto del ritardo nella Francia, che resta più vicina al 4 che al 3 per cento di deficit, chiedere un ulteriore slittamento per il pareggio strutturale anche per l’Italia, non di uno ma di due anni. Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan hanno sin qui escluso ogni manovra correttiva: ma c’è la campagna elettorale. Di fatto, poiché la volatilità dello spread è ripresa potrebbero risultare sopravvalutati i 3 miliardi di minori interessi sul debito pubblico stimati nei conti 2014 del governo. A quel punto, saremmo di nuovo al 3 per cento di deficit già nel 2014, perché bisognerebbe sommare i minori introiti tributari da minor crescita rispetto a quella stimata. E ciò al netto di eventuali incidenti di percorso su introiti già disposti, come eventuali pronunzie
della Corte costituzionale sull’aggravio al 26 per cento sulle banche partecipanti al capitale di Bankitalia dell’aliquota sulla rivalutazione delle proprie quote.

La debolezza di fondo del governo è di avere limitato per ragioni di campagna elettorale a 3 soli miliardi l’intervento di minor spesa pubblica nel 2014. E di questi 3 miliardi i 700 milioni a carico delle regioni sono ancora tutti da chiarire. In questo modo, 29 su 32 miliardi di minori spese nel triennio sono stati rinviati al 2015 e 2016. Ma la quota dei presumibili 15 miliardi di tagli 2015 risulta già impegnata – tra conferma del bonus "strutturale" e sua estensione agli incapienti, e spese obbligate come il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali – senza considerare ulteriori fondi da stanziare al servizio delle riforme già annunciate dal governo (attuazione delega fiscale e Jobs Act). Dunque, allo stato non c’è capienza per contenere il deficit sotto il 3 per cento, né per stabilizzare il debito pubblico. Né tanto meno per abbassare le imposte.

Sono i numeri a dirlo, non il pregiudizio. Padoan dovrà pensarci bene, dopo il voto europeo. Aspettare fino alla legge di stabilità, prima di porre riparo, è molto rischioso. Troppo, per sperare che al governo italiano l’Europa faccia il doppio dello sconto che ha già richiesto col Def.

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