Monti-sindacati, scontro sulla concertazione
Economia

Monti-sindacati, scontro sulla concertazione

L'attacco del premier all'assemblea dell'Abi ha scardinato un tabù osteggiando il potere più alto delle parti sociali. Mossa politica? Forse solo parlare chiaro

Attaccando frontalmente la concertazione all’assemblea dell’Abi Mario Monti ha rotto un tabù. Di quella parola, nei vent’anni passati si è sentito quasi solo dir bene. Almeno nelle dichiarazioni pubbliche. Poi, a un certo punto, qualche sindacalista ha cominciato a riconoscere che se le retribuzioni in Italia hanno perso tanto terreno rispetto al resto d’Europa la colpa è stata anche della concertazione.

Ma sottovoce, in camera caritatis, e comunque solo negli ultimi anni. Come mai? Perché la concertazione ha rappresentato il punto più alto del potere sindacale, i cui rappresentanti non a caso si stracciano le vesti di fronte a chiunque osi criticarla. Lo facevano ieri con Berlusconi (e i suoi ministri Maurizio Sacconi e Renato Brunetta sempre apertamente contrari alla concertazione), lo fanno oggi con Monti.

Ma al di là dell’acqua che ha portato al mulino del potere sindacale, la concertazione è poi convenuta ai lavoratori? All’inizio, forse. Quando nel 1993 i sindacalisti Bruno Trentin, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza firmarono con governo e Confindustria l’accordo da cui la concertazione prese il nome, l’Italia aveva un disperato bisogno di contenere gli aumenti indiscriminati dei salari. Era la cosiddetta politica dei redditi. I sindacati la concessero, dando con ciò il loro contributo alla battaglia contro l’inflazione, e in cambio pretesero che qualunque scelta importante del governo fosse concordata con loro e con i rappresentanti delle imprese, nel classico tavolo a tre che negli anni è diventato così familiare.

Nel ’93, sotto la minaccia del disastro economico nazionale poteva pure essere ragionevole. Ma da allora sono passati quasi vent’anni. E ben presto quella clausola rigida ha cominciato a produrre pesanti effetti collaterali, ostacolando la chiara distinzione di ruoli e responsabilità su cui si basano i sistemi economicamente efficienti: gli imprenditori hanno rallentato la ricerca delle condizioni più produttive, i sindacati si sono battuti con meno energia per gli aumenti salariali e i governi hanno preso le loro decisioni di politica economica con occhio meno attento all’interesse generale e alle generazioni future. Per cui, come ha detto Monti, è anche colpa della concertazione se i nostri giovani oggi faticano tanto a trovare lavoro.

In altre parole i sindacati hanno offerto moderazione salariale e pace sociale in cambio di una sorta di potere di veto nei confronti del governo e delle aziende. Non per niente si è dovuti arrivare al 2009 per ottenere un aumento del peso della contrattazione decentrata (osteggiata dalla Cgil, il cui veto è stato subito passivamente per anni dagli altri due sindacati e da Confindustria) e alla “scandalosa” Elsa Fornero per il passaggio generalizzato dal sistema pensionistico retributivo al contributivo, che se adottato una decina di anni prima avrebbe fatto risparmiare all’Italia parecchie decine di miliardi e messo fine alla palese ingiustizia che ha consentito a centinaia di migliaia di italiani di andare in pensione a spese di altri che si ritireranno dopo un periodo di lavoro più lungo e con un assegno inferiore (una tale differenza può mai essere considerata un diritto acquisito?).

Per tutto questo si grida e si griderà al sacrilegio per l’affermazione di Monti, che sembra avviato a diventare sempre più una "bestia nera" per il sindacato e per una buona parte della sinistra. Resta da chiedersi che cosa abbia spinto il presidente del Consiglio a una sortita così netta e poco conciliante, per altro del tutto in sintonia con la polemica dell’altro giorno verso il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi in versione filo-Cgil.

Può darsi che il presidente del Consiglio, una volta deciso di non restare in campo dopo le prossime elezioni, abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Ma non si può neppure escludere una vera svolta politica che lo allontanerebbe dalla sinistra per far riemergere la sua storia di liberale moderato.

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Stefano Caviglia