Indesit, gli esuberi e una strategia industriale che non c'è
Economia

Indesit, gli esuberi e una strategia industriale che non c'è

Cosa si nasconde dietro la decisione della famiglia Merloni di lasciare a casa 1.425 dipendenti

Quello dell’imprenditore è un mestiere serio e Vittorio Merloni, capo storico del gruppo Indesit, aveva dimostrato per tanti anni di saperlo fare molto bene. Non altrettanto sembra potersi dire dei suoi eredi. O meglio, di coloro che – stante la sua sopravvenuta impossibilità di decidere – hanno deciso da soli di tutte le ultime scelte gestionali e, dopo un tira-e-molla tra fazioni familiari durato un buon semestre, hanno riconfermato all’ultima assemblea lo status quo del vertice del gruppo; per poi, dopo neanche due mesi, annunciare 1.425 esuberi sui 4.300 oggi occupati in Italia dal gruppo.

E nonostante nel primo trimestre l’azienda abbia prodotto un utile netto in calo, sì, ma pur sempre di una certa consistenza: 4,1 milioni su un fatturato di 595 e un margine operativo lordo di 41,3. Cos’è mai successo per spingere il nuovo-vecchio vertice a un passo così drastico?

Niente che non fosse ampiamente prevedibile da tempo e, quindi, prevenibile se il vertice fosse stato in grado di imprimere una strada gestionale energica. Alcune produzioni italiane vengono giudicate “non più sostenibili” e si è deciso di farle emigrare negli impianti polacchi e turchi del gruppo.

E così mentre un colosso come la Whirpool riporta in Nord America, dalla Cina, i transplant che aveva installato laggiù per risparmiare sul costo del lavoro, visto che ormai con le “fabbriche buie” la variabile-salari incide sempre meno, Indesit Group sceglie la strada inversa e si prepara a tagliare 1250 operai, 150 impiegati e 25 dirigenti.

Per carità: il piano, presentato ieri ai sindacati, contiene anche l’impegno ad investire in Italia 70 milioni sull’innovazione di prodotto e di processo nel triennio 2014-2016. E “conferma la centralità strategica dell’Italia”. Ma, certo, da questi eventi gestionali appare oggi, retrospettivamente, quanto mai giustificato il pressing, preoccupato e infastidito, esercitato dalla componente “di minoranza” della famiglia che ha contestato invano e per mesi la leadership autoproclamata di Andrea Merloni ottenendo, come unico contentino, un passo indietro dell’interessato a tutto vantaggio però del suo storico braccio destro Marco Milani.

Se n’erano sentite di ogni: un ritorno clamoroso di Guerra a Fabriani (l’attuale, brillantissimo a.d. di Luxottica che aveva fatto assai bene in Merloni) o di Francesco Caio, ormai “ex” amministratore delegato dell’Avio, appena acquisita dalla General Electric, delle cui attività aerospaziali in Italia il bravo top-manager è diventato responsabile.

Niente di tutto questo. Ancorchè da tempo priva di spunti strategici innovativi – pur nell’oculatezza della gestione ordinaria – il veccho vertice è stato sostanzialmente riconfermato senza né scosse né promesse particolari. E adesso?
È un po’ questa la sensazione amara che suscita l’annuncio di ieri: fare sacrifici può anche andar bene, ma a fronte di una strategia chiara che quei sacrifici permetta di valorizzare. Questa prospettiva sacrosanta non appare invece ad oggi chiara quanto servirebbe.

E riprendono quota e credibilità le voci, mai sopite a Fabriano, di un dibattito tuttora acceso all’interno della famiglia tra coloro che vogliono al più presto vendere l’azienda a un colosso straniero o, almeno, “fidanzarla”, e chi vuole resistere e tentare lo “stand alone”. Intento meritevole, ed anche encomiabile, se fosse stato e fosse suffragato da una strategia incisiva e una drasticamente maggiore efficienza gestionale.

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Sergio Luciano