Ilva ed Emilio Riva: imprenditore schivo, duro, cinico
Economia

Ilva ed Emilio Riva: imprenditore schivo, duro, cinico

Emilio Riva è morto oggi 30 aprile 2013 a 88 anni. Ecco un ritratto dell'imprenditore scritto quando nel novembre del 2012 venne inquisito per associazione a delinquere, disastro ambientale e concussione. Chi era il padrone delle ferriere di Taranto

Emilio Riva, 88 anni, è morto questa notte nella sua abitazione di Malnate. Era gravemente malato da tempo. Aveva acquistato l'Ilva nel 1995 dall'Iri. Agli arresti domiciliari per l'inchiesta sul disastro ambientale a Taranto, Riva era in attesa dell'udienza preliminare del processo, che si terrà il prossimo 19 giugno.

Questo ritratto di Riva è stato originariamente pubblicato il 28 novembre del 2012, quando venne inquisito per associazione a delinquere, disastro ambientale e concussione.

"Già mi affeziono poco alle persone, figuriamoci alle cose": chi conosce da tempo Emilio Riva, 86 anni, inquisito per associazione a delinquere, disastro ambientale e concussione, sa che la sua filosofia non andava molto oltre. Uomo d’azione, più che di pensiero. Il classico "padrone delle ferriere". Se uno immagina l’icona dell’imprenditore grintoso, antipatico, duro, saccente, eppure incontestabile (fino a poco tempo fa) nella sua forza e nelle sue capacità, nel suo successo insomma, disegna Emilio Riva.

Adesso però lo si immagina anche come le intercettazioni dei suoi figli e dei suoi manager all’Ilva di Taranto lo dipingono: cinico oltre ogni limite, bugiardo, manipolatore. Che si aggiunga o meno la frasetta cautelativa di rito – sempre che le accuse saranno confermate dalle sentenze – la sostanza cambia, l’immagine no. Le sentenze riguarderanno appunto i tre capi d’imputazione che hanno colpito lui e i suoi, ma la credibilità del personaggio è irrimediabilmente compromessa.

Riva appartiene a quella generazione di imprenditori italiani che hanno saputo fare i soldi con il miracolo economico, tutti bravi, soprattutto a scegliere la data di nascita. Quello che oggi è (o era?) uno dei primi dieci industriali siderurgici del mondo, aveva cominciato nel 1954, su un vecchio camion americano Dodge, sulle orme del padre, commerciante di scarti ferrosi, a raccattare rottami per venderli ai siderurgici bresciani, forti già da allora. Un commercio fiorente, gemello di quello che Giuseppe Cabassi faceva con i rottami edilizi, le macerie: si compra a due lire, spesso gratis, basta portar via il disturbo dei rottami ingombranti e si vende in nero.

Ma lo spirito imprenditoriale scorreva veloce nelle vene di Riva: nel 1957 inizia a produrre acciaio a Caronno Pertusella, in proprio. Poi scopre e importa per primo – nel ’64 - la colata continua, il metodo produttivo divenuto poi lo standard. È il successo.

Metodo di lavoro: grinta e riservatezza. Mai un socio esterno alla famiglia, l’azienda al centro, pochi fronzoli. Quattro figli e due nipoti tutti a lavorare con lui. Un po’ Paperone, un poco Schrooge. Ma così facendo diventa un vero numero uno. Tanto per capirsi: leader siderurgico in Italia, quarto a livello europeo e decimo nel mondo con un fatturato di 8,53 miliardi di euro e circa 26.000 dipendenti, 38 stabilimenti produttivi dei quali 20 in Italia, tra cui Taranto, che con i suoi cinque altoforni è il più grande polo europeo dell’acciaio.

Dopo gli infiniti conati gestionali della vecchia Finsider – la holding siderurgica pubblica del gruppo Iri – per passare dal "rosso fisso" all’attivo, l’apoteosi di Riva si compie con la privatizzazione dell’Ilva. Prima Cornigliano, poi Taranto: tutto a lui. Nel giro di un paio d’anni la gestione privata fa emergere in tutta la sua manchevolezza i limiti di quella statale, al punto che la produzione esplode nella misura di oltre il doppio. "Io non sono un capitalista, ma un imprenditore industriale", ripeteva all’apice del successo Emilio Riva, continuando a investire: tredici navi, uno stabilimento di recupero rottami in Canada ed un impianto di frantumazione in Francia, produzione di materiale refrattario con sei stabilimenti in Italia, nella produzione di cilindri di laminazione con uno stabilimento sempre in Italia.

Un episodio, raccontato qualche mese fa da Panorama, all’inizio dello scandalo, descrive bene la refratterietà di Riva per la finanza. Fu quando durante una giunta di Confindustria l’allora potente e rispettato Calisto Tanti fece un intervento a favore della finanziarizzazione delle imprese: "Dobbiamo modernizzarci, usare la borsa", disse. E Riva saltò su: "Non sono d’accordo. Veda, signor Tanzi, se io la prendo per i piedi e la scrollo, dalle sue tasche esce tanta, tanta carta. Se invece prende me per i piedi, dalle mie tasche escono tanti, tanti soldi. Ecco qual è la differenza tra noi due".

L’oleografia su Riva e i suoi figli è tutta a sprazzi come questi, di dura concretezza. Quando nel ’95 la famiglia s’insedia a Taranto, al volo tutti capiscono che è cambiato il mondo. I giovani Riva girano su vecchie Panda, i manager Finsider arrivavano col le Thema blu, le segretarie e la scorta, stavano tre ore e se ne andavano. "La presenza della famiglia sugli impianti produttivi, a contatto con tecnici e operai" dice un manager del gruppo "è una costante. Una cultura del lavoro che deriva dalla figura di Emilio, adottata poi da figli e nipoti". "Il pranzo di Natale ha un valore simbolico forte" racconta un collaboratore di Emilio, che ha sei figli, due femmine e quattro maschi. Il più grande, Fabio, è il vero numero due del gruppo; Claudio, dal carattere spigoloso, è uscito dalle attività siderurgiche e segue quelle armatoriali; Nicola, finito agli arresti con il padre, è l’uomo della produzione; e Daniele guida lo stabilimento di Genova. In azienda lavorano pure i nipoti Angelo e Cesare.

E le femmine? La "gender diversity", in carattere col resto, non è molto praticata: le figlie fanno altro, le nuore sono invitate a non salire ai piani superiori della sede milanese dove ci sono gli uffici dei mariti.
E poi la retorica della sobrietà: stipendi parsimoniosi a tutta la prima linea, compreso il patriarca; luci spente quando i manager se ne vanno, alle dieci di sera. Niente dividendi, tutto reinvestito: anche se dalle carte dell’inchiesta pugliese emerge che annualmente l’Ilva staccava un maxi-assegno a una società di famiglia per consulenze manageriali, decine e decine di milioni di euro che senza apparire finivano nelle tasche giuste.

E la durezza negoziale: cause a gogò per comportamento antisindacale, scontri con gli enti locali sull’inquinamento – anche a Genova, non solo a Taranto! – e opacità totale con la stampa: nel 2006, quando Panorama spedisce un suo inviato per raccontare come funziona la più grande fabbrica d’Europa e il patriarca si lascia convincere a lasciarlo entrare, il risultato giornalistico lo fa infuriare: "Quando tira vento, e a Taranto lo scirocco soffia spesso e forte – scrive l’inviato del settimanale Angelo Pergolini - dai parchi (e dai nastri trasportatori che li collegano al porto) si alzano nuvole impalpabili, coprono il rione Tamburi, periferia di case popolari cresciuta parallelamente allo stabilimento da cui è divisa solo da un muro; scendono sugli edifici fatiscenti della città vecchia; si posano sulle vetrine eleganti di via D’Aquino, cuore dello shopping e dello struscio. Lasciano ovunque la stessa scia grigia e velenosa, penetrano dappertutto: polmoni compresi".

Dopo la pubblicazione del reportage, la società di relazioni pubbliche viene licenziata.

QUI IL VIAGGIO NELL'ILVA DI TARANTO DEL NOSTRO INVIATO

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Sergio Luciano