Corriere della Sera, toglietemi tutto ma non quel giornale
Economia

Corriere della Sera, toglietemi tutto ma non quel giornale

La Fiat è sempre meno interessata all’Italia, però il quotidiano è intoccabile. Della Valle attacca gli Agnelli guardando a via Solferino. E John Elkann serra la presa, perché sa che il peso politico della testata non ha prezzo.

Quel pranzo malandrino non è piaciuto a tutti i soci. Venerdì 21 settembre, John Elkann, al termine di una riunione interlocutoria del patto che vincola il 58 per cento del capitale, si è fermato nella sede del Corriere della sera per un déjeneur di due ore con il presidente Alberto Provasoli e l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, i due uomini scelti nell’aprile scorso vincendo le resistenze di Giovanni Bazoli, lord protettore del giornale, e l’opposizione aperta di Diego Della Valle, uscito sbattendo la porta. «È forse diventato l’editore unico?» bofonchiano nei corridoi di via Solferino.

Con 10 azioni su 100, la Fiat si prende il diritto alla prima e all’ultima parola rispetto agli altri 12 principali azionisti della Rcs. Gianni Agnelli aveva acquisito un potere d’investitura amplissimo, soprattutto sul direttore del quotidiano. Gli eredi seguono le sue orme. Possono anche lasciare la Fiat auto, anzi secondo alcuni Sergio Marchionne sta preparando lo scivolo, ma non molleranno la presa sulla «nostra Rcs», come la chiama Elkann. È un’attrazione fatale che attraversa le generazioni, un gioco di specchi che rimanda al mercato delle influenze. E a sei mesi dalle elezioni, la temperatura sale al calor bianco.

In molti bussano alla porta. Il re delle cliniche milanesi, Giuseppe Rotelli, ha già un piede sull’uscio e arrotonda la propria quota al 16 per cento. Nel club è entrata persino l’Unipol, avendo acquisito la quota di Salvatore Ligresti: da via Stalingrado a via Solferino. Mentre il patron della Tod’s, libero dagli accordi di sindacato, ha cominciato a comprare quel poco che resta sul mercato (circa il 10 per cento dei titoli) e non perde occasione per attaccare i vertici della Fiat: «Presi con le mani nella marmellata, vogliono andarsene dall’Italia». Replica duro Marchionne: «La smetta di rompere, i suoi investimenti in borse per me non valgono un parafango». Dietro la lite da comari ci sono due modelli di capitalismo. Forse. Certo c’è il controllo del Corriere.

La Rcs è davvero così importante? Il gruppo è colpito dalla recessione e dal calo di pubblicità, dalla rivoluzione tecnologica (tablet, social media) che scompagina l’editoria di carta, da investimenti sbagliati come la francese Flammarion o sfortunati come la spagnola Unidad Editorial che stampa il quotidiano El Mundo. Ha bisogno di un aumento di capitale. La vendita della consociata parigina ha fruttato 240 milioni, ma è chiaro che non bastano. E i due soci principali, Fiat e Mediobanca, non tirano fuori un quattrino.

Dunque, non è per fare soldi che conta il Corriere. Il giornale della borghesia ha un fascino antico, ma soprattutto conferisce a chi lo controlla un forte ascendente politico. E non da adesso. È esattamente per questa ragione, del resto, che la Fiat entra per la prima volta in via Solferino. Giulia Maria Crespi, erede della dinastia tessile azionista storica, rimasta in bolletta, nel 1973 chiede aiuto ad Angelo Moratti e a Gianni Agnelli, il quale racconta a Panorama nel 1975: «Sono intervenuto per evitare che andasse nelle mani di Attilio Monti (il petroliere ed editore che possedeva fra l’altro «Il Resto del Carlino» a Bologna, «La Nazione» a Firenze, «Il Tempo» a Roma, ndr) e alla Fiat non conveniva che il più importante quotidiano italiano si collocasse troppo a destra». Ma non gli fa comodo nemmeno che scivoli troppo a sinistra, là dove lo porta «la Zarina», che spinge Indro Montanelli ad andarsene. «Noi siamo sempre governativi» ripetono a Torino.

L’Avvocato vuole fare il presidente della Confindustria e il 5 aprile 1974 viene convocato da Amintore Fanfani: l’uomo più potente della Democrazia cristiana gli impone di sciogliere i legami con L’Espresso, controllato da Carlo Caracciolo, cognato di Gianni Agnelli, e con il Corriere. A quel punto
Crespi chiama Andrea Rizzoli, il quale si indebita fin sopra il collo e cade nelle grinfie di affaristi e banchieri legati alla P2, da Umberto Ortolani a Roberto Calvi, con «il burattinaio» Licio Gelli (così si definì egli stesso intervistato da Maurizio Costanzo proprio sul Corriere) a tirare i fili.

È ancora la politica a fare tornare Agnelli dopo lo scandalo della loggia coperta Protezione 2. Nell’ottobre 1984 la Gemina, una finanziaria controllata dalla Fiat e guidata da Cesare Romiti, acquisisce la casa editrice a un prezzo molto basso. Intervengono in molti: da Sandro Pertini, socialista, presidente della Repubblica, a Beniamino Andreatta, la testa più lucida della Dc. «Fece tutto Bazoli, anche il prezzo, e noi ci fidammo» sostiene Romiti. Angelo Rizzoli, figlio di Andrea, non l’ha mai mandato giù: dopo 26 anni, tra i quali 407 mesi di galera e sei assoluzioni, ha chiesto di essere risarcito con 650 milioni di euro, ma i giudici gli hanno dato torto.

Agnelli non molla nemmeno nel 1992, quando è in crisi nera, mentre crollano la lira e l’intero sistema politico. Anzi, proprio Tangentopoli, che coinvolgerà i vertici del gruppo, spinge a serrare le fila. Così, per la prima volta il direttore della Stampa, il giornale della Fiat, va a dirigere senza soluzione di continuità il quotidiano di via Solferino. Il prescelto è Paolo Mieli e la decisione è tormentata: l’Avvocato chiede addirittura il via libera a Bettino Craxi, ricorda Massimo Pini nella sua biografia del leader socialista.

Dieci anni dopo, nel momento più drammatico della storia centenaria della Fiat, il Corriere resta intoccabile. Il 24 gennaio 2003 muore Gianni Agnelli, di lì a un anno scompare anche il fratello Umberto. La famiglia è in preda a una crisi esistenziale. La guerra di successione assume toni da tragedia greca (Margherita impugna l’eredità contro il figlio John e la madre Marella). Le sorti del gruppo sono in mano alle banche che chiedono di trasformare in azioni i 3 miliardi di euro prestati due anni prima. Nel frattempo, Marchionne comincia a rovesciare l’azienda sotto la presidenza di Luca di Montezemolo, diventato anche presidente della Confindustria.

In Rcs si crea un vuoto al vertice: il 22 giugno 2004 si dimette Cesare Romiti, che aveva ottenuto il gruppo editoriale come buonuscita dalla Fiat nel 1998, anche se Gianni Agnelli era riluttante, tanto da resistere per ben tre mesi. «Il giornale mi divertiva» confessa Romiti che, in quanto presidente onorario, oggi non si esprime sulle sorti presenti e future.

Un mese prima, esattamente il 4 maggio, s’è affacciato uno sconosciuto immobiliarista romano, Stefano Ricucci, con un piccolo pacchetto azionario. Nel gennaio successivo, il parvenu sfiora già il 5 per cento, il 29 giugno 2005 è al 20. Montezemolo chiede alle autorità di fare chiarezza e proclama che la Rcs è strategica. Gli fa eco Marchionne. L’establishment s’arrocca, perché attraverso il Corriere passa il delicato equilibrio dei «poteri forti».

L’attacco procede in parallelo con l’assalto dei «furbetti del quartierino» alle banche Antonveneta e Bnl. Proclamano l’ambizione di scuotere la foresta pietrificata, ma finiscono in tribunale. Per avere un’idea di quanto sia stato aspro il conflitto, basti ricordare che venne costretto alle dimissioni e poi rinviato a giudizio il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, contro il quale si schierarono tutti i giornali legati al Lingotto.

Il banchiere Enrico Cuccia aveva consigliato ad Agnelli di tenersi lontano, eppure nella coppia Fiat-Corriere si è sempre inserita la Mediobanca. L’amministratore delegato Alberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro oggi sostengono Elkann. Ma nemmeno la banca d’affari è più quella di un tempo. Il suo bilancio soffre per il crollo azionario di tutte le società partecipate, comprese le Assicurazioni Generali, e si parla di vendere il vendibile. La Consob, presieduta da Giuseppe Vegas, ha acceso due fari, uno sulla Mediobanca in relazione al salvataggio del gruppo Ligresti da parte dell’Unipol, l’altro sulla scalata alla Rcs. I soci del patto sono convinti di essere al riparo; a piazza Affari, invece, molti si attendono la resa dei conti.

Mentre il futuro dell’auto italiana torna a diventare affare di stato, il Corriere resta oltre modo prezioso. Tanto più che grande è la confusione sotto il cielo della politica. Al governo c’è Mario Monti, storico editorialista del quotidiano (e consigliere della Fiat dal 1988 al 1993), in mezzo a una tempesta senza pari. E via Solferino si trasforma in una roccaforte assediata. Come la Fortezza Bastiani che faceva la guardia al deserto dei Tartari, uscita dalla penna di uno dei corrieristi più famosi: Dino Buzzati.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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