I 4 motivi per cui Matteo Renzi sta deludendo
Daniele Scudieri / Imagoeconomica
Economia

I 4 motivi per cui Matteo Renzi sta deludendo

Il premier martella senza tregua l’opinione pubblica con annunci di riforme epocali. Che poi svaniscono. Ricordate il Jobs Act?

Chissà se Sergio Marchionne, fino a poche settimane fa entusiasta sostenitore del decisionismo di Matteo Renzi, lo è ancora oggi? La domanda sorge spontanea osservando la parabola delle politiche del lavoro. Annunciato come imminente fin dai primi giorni dell’anno, il Jobs Act è diventato, poco per volta, un mistero sempre più fitto, fino alla quasi completa imperscrutabilità di oggi.

Ricapitoliamo. Negli ultimi anni Renzi ha più volte dichiarato la sua condivisione del codice semplificato del lavoro di Pietro Ichino, nonché la volontà di riformare radicalmente il mercato del lavoro secondo principi di flex-security. C’era dunque, già prima dello sgambetto al governo Letta, una forte attesa per i contenuti del progetto di riforma del mercato del lavoro.
Attesa ulteriormente rinfocolata, non appena Renzi si è impossessato del governo, dalle bellicose dichiarazioni antisindacali (se i sindacati non sono d’accordo, "ce ne faremo una ragione"). L’aspettativa, però, è andata sostanzialmente delusa. Vediamo perché.

Delusione numero 1. Sollecitato a varare subito il codice semplificato del lavoro, Renzi ha cominciato a cincischiare, rimandando tutto a dopo l’estate, e dando un’unica debolissima spiegazione, ossia che fra 3 e 8 mesi di attesa non vi sarebbe poi una così grande differenza.

Delusione numero 2. La riforma del mercato del lavoro, che un aspirante premier dovrebbe avere pronta nel cassetto da anni, viene affidata a un lunghissimo iter parlamentare, basato su una legge delega al governo. Gli ottimisti dicono che ci vorrà un anno, i pessimisti ricordano che in passato disegni di legge altrettanto complessi di anni ne hanno richiesti tre.

Delusione numero 3. Il decreto legge Poletti, concepito per cominciare a introdurre un po’ di flessibilità (ma soprattutto di buon senso) nel mercato del lavoro senza aspettare la conclusione dell’iter della legge delega, viene progressivamente stravolto e svuotato, al solo scopo di accontentare la Cgil e la sinistra del Pd. Domani come ieri sarà difficile assumere apprendisti, perché gli adempimenti e i vincoli per le imprese restano pesanti.

Delusione numero 4. Nella scelta fra sgravi Irpef e sgravi Irap vengono privilegiati nettamente i primi, con la conseguenza di favorire chi un posto di lavoro già ce l’ha, e di nulla offrire a chi un lavoro non ce l’ha ancora, soprattutto disoccupati, giovani e donne escluse dal mercato del lavoro. Con una ulteriore aggravante: i lavoratori dipendenti poveri, quelli che guadagnano meno di 8.200 euro lordi all’anno (circa 400 euro netti al mese) non avranno alcun bonus in busta paga, chi ne guadagna di più sì (purché non superi i 26 mila euro l’anno).

Possibile che alla prima prova Renzi si tiri indietro? Dov’è finito il suo sbandierato decisionismo? Che ne è della baldanzosa affermazione fatta in tv, secondo cui "dopotutto, siamo pagati per decidere"? La risposta è che Renzi la sua scelta sembra averla fatta, ma è una scelta di grande continuità con il passato. Una volta andato al governo, il premier deve essersi reso conto che quasi nulla di quel che aveva promesso o lasciato intendere era realizzabile sul serio in tempi brevi. Soprattutto sul mercato del lavoro, qualsiasi tentativo di cambiare radicalmente le regole avrebbe incontrato l’opposizione senza quartiere della Cgil. Ed ecco allora la soluzione: martellare senza tregua, fino allo stordimento, l’opinione pubblica con annunci di riforme epocali, ma al tempo stesso evitare accuratamente di metterne in atto anche una soltanto. Meglio navigare a vista con le commissioni parlamentari, il ping pong Camera-Senato, le discussioni in Parlamento, le leggi delega, i decreti legislativi, i regolamenti attuativi. Così, lentamente, impercettibilmente ma inesorabilmente, le novità possono essere smussate, attenuate, sopite, negoziate. Le parti sociali hanno modo di interloquire con il governo, ritoccare, modificare, cancellare quel che non va. Ci vorranno mesi, forse anni, ma nel frattempo il governo resta in piedi, forte dei suoi proclami
e delle sue promesse. Anziché fare qualcosa subito, e controllare se funziona, si preferisce avviare percorsi legislativi lunghi, per poter ricorrere alla solita formula dei governi deboli e inoperosi: le riforme daranno i loro frutti "fra qualche anno" (così di recente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan).

In tutto questo, è vero, la concertazione con le parti sociali, imprenditori e sindacati, salta completamente, ed è una importante novità rispetto al passato. Ma il fatto è che alla concertazione non subentra la decisione, bensì una forma più sottile ed estenuante di concertazione: anziché farsi valere direttamente ed esplicitamente, in un negoziato triangolare sindacati-governo-Confindustria, le parti sociali si fanno valere in modo più subdolo e indiretto, attraverso le pressioni che riescono a esercitare sui singoli deputati e senatori o sulle commissioni parlamentari, specialmente la commissione Lavoro della Camera (non a caso da alcuni ribattezzata "commissione Cgil", per l’alto numero di membri provenienti dal sindacato più ostile a riforme radicali).

Il risultato non è solo il rallentamento delle riforme, ma è la introduzione di un ulteriore freno all’economia, come se non ne avessimo già abbastanza. Basta parlare con gli imprenditori e con gli operatori economici, per rendersene conto: il fatto che il governo vari un decreto (il decreto Poletti) e poi non lo difenda nel percorso di conversione in legge, il fatto che pochissimo si sappia dei contenuti del Jobs Act, il fatto che le regole del mercato del lavoro siano destinate a cambiare ma non si sappia né come né quando, produce a getto continuo la più potente delle tossine anticrescita: l’incertezza. Un aumento, quello dell’incertezza, che in questo momento viene occultato dalle speranze di ripresa e dal lento risveglio dell’economia europea, ma che non è per questo meno reale. Incertezza, infatti, significa che si fanno meno investimenti e meno assunzioni di quante se ne farebbero in un quadro stabile, in cui la politica si degnasse di fissare le regole del gioco economico dei prossimi anni, e non pretendesse di ritoccare quelle medesime regole a ogni pressione delle lobby sindacali e imprenditoriali, a ogni stormir di fronde entro il turbolento partito del premier.

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Luca Ricolfi