Sharing economy e sfruttamento, il punto di vista dei lavoratori
Steven Widoff / Alamy
Economia

Sharing economy e sfruttamento, il punto di vista dei lavoratori

Ecco come Uber, Airbnb, Lyft e gli altri aggirano le leggi sulla tutela dei dipendenti

Orami la sharing economy è una presenza consolidata nei Paesi occidentali e non solo: da Uber a Airbnb, è quasi inevitabile che ciascuno di noi, prima o poi, si trovi a fruire di un servizio di condivisione. I vantaggi sono numerosi, e non soltanto per i consumatori, ma non mancano certo le zone grigie. A partire dal problema della tutela dei lavoratori.

Come ha denunciato The Atlantic, la maggior parte delle società che gestiscono i servizi di sharing economy tende a considerare i prestatori d'opera non come dipendenti veri e propri, ma come controparti imprenditoriali, con tutto quello che ne consegue. Salari minimi, ferie retribuite, congedi per maternità e malattia, regole sui licenziamenti e quant'altro sono un obbligo per i dipendenti, non per i "terzisti autonomi". Ma siamo proprio sicuri che tutte le persone che lavorano per una società attiva nel mondo della sharing economy vadano classificate come "terzisti autonomi"? Di certo non è un caso che negli Stati Uniti i principali operatori del settore siano già stati tutti denunciati per non aver rispettato la normativa sulla tutela dei loro dipendenti.

Flessibilità, autonomia e sfruttamento

Il tentativo da parte di alcuni datori di lavoro di aggirare le regole non è certo una novità, ma come ha notato The Atlantic l'affermarsi dell'economia della condivisione rende loro il compito più facile, grazie alla possibilità di far leva sulle nuove tecnologie. Secondo l'esperta giuslavorista statunitense Shannon Liss-Riordan, molte fra le nuove aziende tecnologiche non sono aziende di comunicazione informatica come pretendono di essere: Uber e Lyft, ad esempio, operano nel settore dei trasporti, Homejoy è un servizio di pulizia, mentre Postmates è un corriere come tanti altri. Quindi non è vero che si limitano a mettere in contatto le persone che possono offrire un servizio e quelle che desiderano riceverlo, ma si appoggiano a collaboratori regolari che, in quanto tali, vanno considerati impiegati a tutti gli effetti. Flessibili negli orari, spesso senza uno stipendio fisso, certamente facili da licenziare, ma tanta libertà non può finire col tradursi in una versione soft di sfruttamento

Le origini dell'equivoco

L'equivoco ha radici facilmente comprensibili. Tutte queste società non sono nate per essere multinazionali dei servizi, ma con altra natura. Lavorare nel mondo della sharing economy, originariamente, era un modo per molte persone per arrotondare, un secondo impiego da affiancare al proprio lavoro per integrare il reddito nei ritagli di tempo. In alcuni casi questo è ancora vero, ma va riconosciuto che sono ormai tante le persone che si guadagnano da vivere esclusivamente attraverso servizi condivisi. Basti pensare ai tanti autisti a tempo pieno che lavorano con Uber per comprendere l'ampiezza del fenomeno.

Considerando le ultime evoluzioni nel mondo della sharing economy, forse è davvero arrivato il momento di regolare meglio la situazione. Le strade possibili sono molte, ma il lavoro non può rimanere senza tutela, anche se occorrerà uno sforzo di approfondimento per non distruggere un modello particolarmente flessibile che avvantaggia la stragrande maggioranza dei consumatori e anche molti operatori.

I più letti

avatar-icon

Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

Read More