Incentivi alle assunzioni: una beffa per 30 mila imprese
ANSA/FILIPPO MONTEFORTE
Economia

Incentivi alle assunzioni: una beffa per 30 mila imprese

Ecco perché i centri per l'impiego, i cui data base non comunicano fra loro, ora chiedono 148 milioni a molti imprenditori

Quando il dibattito sull’utilità degli sgravi triennali alle assunzioni teneva banco in tv e sui giornali, fra il 2014 e il 2015, nessuno avrebbe immaginato l’evoluzione di questi giorni: a due anni di distanza, più che per gli effetti (contestati) sull’occupazione, quella misura rischia di far parlare di sé per il caos amministrativo che ha messo a nudo. L’amara novità è toccata con mano da quasi 30 mila imprenditori, che dopo aver aderito all’agevolazione si preparano a pagare il prezzo del solito pasticcio della burocrazia italiana. La loro colpa? Essersi fidati delle informazioni ricevute dai centri per l’impiego delle rispettive Regioni.

Per ottenere gli sgravi la legge di Stabilità del 2015 richiedeva che il lavoratore assunto non avesse avuto contratti a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, condizione in mancanza della quale chiunque avrebbe potuto licenziare e riassumere incassando lo sgravio senza aumentare l’occupazione stabile. Presa questa precauzione, tutto avrebbe dovuto filare liscio, se non fosse per le incredibili difficoltà esistenti in Italia per chi voglia acquisire notizie certe sui contratti passati di un lavoratore.

Un tempo sarebbe stato facile. Bastava controllare nel libretto di lavoro, che però è stato abolito nel 2002. Da allora l’unica è rivolgersi ai centri per l’impiego, i soggetti pubblici che dalla riforma del Titolo V della Costituzione (quella che ha introdotto nel nostro Paese i principali elementi di federalismo, nel 2001) sono stati affidati alle Regioni, insieme con le competenze sul collocamento. E poiché le banche dati regionali non sono mai state unificate, per sapere con certezza se e dove una persona ha lavorato in passato occorrerebbe rivolgersi ai centri per l’impiego di tutte e 20 le regioni italiane, con l’aggiunta delle province autonome. Cosa che chiaramente nessuno fa.

Ed è qui che è nato il problema, perché un certo numero di candidati all’assunzione non ha comunicato ai futuri datori di lavoro che nei sei mesi precedenti aveva già avuto un contratto a tempo indeterminato, cosa che rendeva lo sgravio indisponibile. Lo ha certificato l’Inps con l’ultimo aggiornamento sul fenomeno fornito alla Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, il 7 marzo scorso. Risulta da quei dati che su oltre 600 mila imprese che hanno fatto ricorso agli sgravi triennali ben 28.591 hanno sbagliato, presumibilmente senza colpa, assumendo persone che nei sei mesi precedenti avevano avuto contratti a tempo indeterminato con altri datori di lavoro. E ora si vedranno richiedere i contributi che erano convinti di non dover versare, con l’aggiunta di una sanzione minima (totale: 148,2 milioni).

Beninteso, oltre agli imprenditori che hanno sbagliato in buona fede ce ne sono altri che invece hanno fatto i furbi, licenziando e riassumendo le stesse persone per accedere indebitamente agli sgravi. Ma sono molti di meno: poche migliaia, per un totale di assunzioni fasulle che non arriva a diecimila. E’ probabile dunque, anche se restano da esaminare diverse migliaia di posizioni, che le oltre 60 mila aziende che l’Inps dichiarò a maggio scorso di aver colto «in castagna» siano in realtà molte meno, e che i 600 milioni che si pensava di recuperare al bilancio pubblico vadano alquanto ridimensionati.

Tutto questo si poteva evitare? «Prima del varo del provvedimento» dice a Panorama il vicepresidente Vincenzo Silvestri «avevamo segnalato al governo che prima bisognava mettere in rete le banche dati dei centri per l’impiego. Ma nessuno ci ha dato retta». Le conseguenze pratiche di questa dimenticanza sono ben descritte da Claudio Della Monica, titolare di uno degli studi di consulenza del lavoro più conosciuti di Milano. «In assenza di una banca dati integrata» spiega «i consulenti delle imprese dovrebbero trasformarsi in segugi, per scoprire se il lavoratore ha avuto un contratto a tempo indeterminato in un’altra regione o in un’altra provincia».

A questa assurda situazione sta cercando di porre rimedio l’Anpal, ente che coordina dall’inizio del 2017 i centri per l’impiego d’Italia. «Entro la fine dell’anno» dichiara il direttore generale Salvatore Pirrone «contiamo di creare una banca dati unica per tutti i centri d’Italia». Se riuscirà a mantenere l’impegno una grave stortura sarà eliminata, ma ovviamente per il futuro. Chi si trova oggi in mezzo al guado dovrà arrivare dall’altra parte a spese proprie, ossia pagando le migliaia di euro di contributi che pensava di aver risparmiato. Possibilmente senza licenziare i nuovi assunti.

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Stefano Caviglia