Jobs Act e call center, le ragioni dello sciopero
Angelo Carconi/Ansa
Economia

Jobs Act e call center, le ragioni dello sciopero

Gli addetti telefonici incrociano di nuovo le braccia per protestare contro il governo. Ecco perché

In piazza per la seconda volta in meno di 6 mesi. Domani i lavoratori dei call center (più di 80mila persone in tutta Italia, tra cui molti laureati e diplomati) si astengono nuovamente dal lavoro dopo un altro sciopero che, nel giugno scorso, ha già raccolto una valanga di adesioni . Molti sono i motivi di questa protesta che precede di poche settimane lo sciopero generale di tutte le categorie di lavoratori, indetto per il 12 dicembre da Cgil e Uil contro il Jobs Act, la riforma del lavoro del governo Renzi.


Il dumping salariale


A ben guardare, il Jobs Act renziano c'entra solo in parte con lo sciopero dei call center di domani. Gli addetti alla telefonia protestano infatti per problemi che vengono da molto più lontano e che forse non andrebbero sovrapposti troppo alle rivendicazioni sindacali sulla prossima riforma del lavoro. Nel settore dei call center, che in Italia ha un giro d'affari di 1,9 miliardi di euro, rischia infatti di scatenarsi una grave crisi occupazionale, di cui si sono già viste le prime avvisaglie negli ultimi mesi. Da Palermo sino a Milano, passando per Napoli, diversi operatori come Accenture, E-care, Gepin e Almaviva, stanno infatti gestendo centinaia o migliaia di esuberi, causati dalla perdita di importanti commesse.


Call Center, le ragioni dello sciopero di oggi


Ed è proprio questa la ragione dello sciopero di domani, che è legato soprattutto al rischio di un'ondata di delocalizzazioni e di un progressivo dumping salariale. I sindacati di categoria Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom evidenziano infatti come in Italia ci sia stata una sbagliata applicazione di una direttiva europea (la n.23 del 2001) che mira a tutelare i diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di un'impresa. Se cambia il “padrone” di un'azienda, dice in sostanza la direttiva Ue, i dipendenti devono conservare il trattamento che avevano prima. Nel settore dei call center, però, c'è una situazione un po' particolare perché in campo vi sono tre soggetti diversi. Il primo è il committente, cioè l'azienda o l'ente pubblico che affida all'esterno il proprio servizio di assistenza telefonica agli utenti. Poi ci sono i gestori dei call center, cioè le società che ricevono la commessa in outsourcing (all'esterno) e assumono i telefonisti. Infine, c'è l'ultimo anello debole della catena, che è rappresentato dai lavoratori.


Lo spettro delle delocalizzazioni


In questa partita a tre succede che i committenti, per risparmiare sui costi, decidano di cambiare con sempre maggiore frequenza il gestore del proprio call center, per affidarsi a chi offre condizioni migliori. Del resto, trovare un fornitore di servizi più conveniente non è molto difficile. Primo, perché ci sono alcuni gestori che hanno scelto di delocalizzare l'attività in altri paesi, per esempio in Albania, dove si trovano molti addetti telefonici che parlano la nostra lingua ma che, rispetto ai loro colleghi italiani, guadagnano meno della metà se non un terzo. Inoltre, non va dimenticato che in certe regioni del Sud ci sono delle agevolazioni che consentono ai gestori dei call center di assumere nuovo personale, senza pagare contributi per i primi tre anni.


I call center italiani? Ormai sono in Albania


A causa di questo mix di fattori, si hanno molte crisi aziendali che non sono causate da un calo dell'attività ma piuttosto dalla scelta dei committenti di cambiare gestore del call center, rivolgendosi a chi ha un costo del lavoro ridotto all'osso. In una situazione del genere, a pagarla sono ovviamente molti dipendenti, che rischiano di perdere il posto dall'oggi al domani. Per evitare questo rischio, secondo i i sindacati basterebbe che l''Italia facesse quello che hanno fatto altri paesi come la Gran Bretagna, dove una legge impone ai committenti di garantire continuità occupazionale, in caso di successione di appalti per le stesse attività. In questo modo, la gara al ribasso sui salari e la corsa ai licenziamenti subirebbero finalmente un stop, o almeno si spera.


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Andrea Telara

Sono nato a Carrara, la città dei marmi, nell'ormai “lontano”1974. Sono giornalista professionista dal 2003 e collaboro con diverse testate nazionali, tra cui Panorama.it. Mi sono sempre occupato di economia, finanza, lavoro, pensioni, risparmio e di tutto ciò che ha a che fare col “vile” denaro.

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