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ANSA/LUCA ZENNARO
Economia

La nuova via della seta e l'incognita dei porti italiani

Fondamentali i lavori a Genova e Trieste, nonché il Terzo Valico previsto per il 2021 per avere vantaggi che possono raggiungere anche un punto di Pil

Siamo pronti per la Nuova Via della Seta? Con questo nome si indica il più grande ciclo di investimenti in infrastrutture del secolo (approssimativamente un trilione di dollari), che la Cina, soprattutto, e l’Unione europea si apprestano a mettere in campo nei prossimi 15-20 anni.

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L’Italia, grazie alla sua posizione di porta d’accesso da sud al mercato continentale, avrebbe le carte in regola per svolgervi un ruolo di primo piano, almeno per quel che riguarda il versante marittimo. Ma non è detto che basti. Anzi, c’è il rischio di veder passare anche questo treno senza riuscire a prenderlo.

I porti coinvolti

Due sono i terminali marittimi italiani del progetto, come il presidente cinese Xi Jinping ha confermato al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni durante la sua visita di metà maggio a Pechino: Trieste-Venezia nell’Adriatico e Genova-Savona nel Tirreno. La geografia li ha collocati nel posto giusto, ossia lungo le rotte più brevi fra il Canale di Suez e l’Europa centrale.

Sbarcandovi il proprio carico senza proseguire verso i grandi scali del nord Europa, le navi provenienti da oriente risparmieranno quattro o cinque giorni di navigazione, con vantaggi per tutti anche in termini di minor inquinamento. Ma oltre alla geografia serve la mano dell’uomo: fondali marini abbastanza profondi, moli sufficienti a scaricare grandi quantità di merci, retroporti attrezzati, collegamenti ferroviari con i mercati strategici.

L'insegnamento di Taranto

Ed è qui che l’esperienza degli ultimi anni autorizza più di una preoccupazione, come ha segnalato senza troppe diplomazie Romano Prodi, intervenendo al seminario Belt and Road Initiative. Opportunità di business fra Italia e Cina, organizzato il mese scorso dallo studio legale internazionale Dentons e dalla Fondazione Italia-Cina a Milano. L’ex presidente del Consiglio e della Commissione europea, grande esperto di relazioni con la Cina, ha ricordato il disastro perfetto combinato dalla politica nazionale e locale con il porto di Taranto, che avrebbe dovuto diventare negli anni scorsi il punto di arrivo principale per le merci cinesi in Europa e alla fine è rimasto tagliato fuori dalle sue rotte a tutto vantaggio dei porti del Pireo. "I rapporti erano chiusi, c’era solo da dragare" ha detto "ma l’Italia ha reagito come fa l’Italia. Sono arrivati i verdi, il gatto del Mediterraneo, la rana pescatrice: dopo sette anni di attesa gli armatori cinesi sono andati via".

Il lavoro da fare

Si spera che stavolta le cose vadano diversamente e diversi progetti messi in campo sembrano andare nella direzione giusta, anche se di strada da fare ce n’è ancora parecchia. Trieste ha bisogno di proseguire l’ampliamento già iniziato del terminal container e procedere entro qualche anno al suo raddoppio, per passare dagli attuali 500 mila container l’anno ai circa a 3 milioni previsti a regime. Tutti dicono che è importante fare sistema, ma Venezia cerca spazio per conto suo con un progetto messo in pista da un consorzio italo-cinese per una piattaforma logistica off shore al largo di Malamocco, che il governo italiano non ha approvato.

A Genova, la cui Autorità portuale è stata appena unificata con quella di Savona, si dovrà realizzare una nuova diga posta più al largo di quella attuale (di cent’anni fa), per consentire l’attracco delle mega navi da 20 mila container il cui passaggio è stato reso possibile dal raddoppio del Canale di Suez inaugurato due anni fa. Potrà volerci fino a un miliardo di euro, ma il ministro del Trasporti Graziano Delrio ha assicurato a fine maggio che i soldi non sono un problema. Dovrebbe occuparsene la Cassa depositi e prestiti attraverso un fondo specializzato per i porti italiani. Si aspetta solo il completamento del progetto, che dovrebbe essere imminente.

I vantaggi economici: un punto di Pil

Per farsi un’idea del valore strategico di questo intervento bisogna pensarlo in abbinata con il Terzo valico ferroviario che collegherà il porto di Genova alla Svizzera e al Baden-Wurttemberg tedesco (regione da 10,9 milioni di abitanti e 462 miliardi annui di Pil). Quando entrambi saranno terminati, nel 2021 secondo le scadenze fissate, l’impatto dei traffici internazionali sull’economia italiana dovrebbe fare un salto di qualità. "Fra tasse portuali, pagamento dell’iva e lavoro logistico" dice a Panorama l’ex sottosegretario ai Trasporti Mino Giachino, che da anni insiste sull’importanza di questo collegamento "la Nuova Via della Seta può significare nei prossimi anni almeno un punto di pil in più all’anno e decine di migliaia di nuovi posti di lavoro".

Il discorso non si limita al traffico marittimo. Il 5 giugno è stato firmato un accordo fra il Polo logistico integrato di Mortara (in provincia di Pavia) e lo ChangiJiu Group (società cinese quotata alla Borsa di Shanghai) per un collegamento merci ferroviario da Shanghai che dovrebbe partire a settembre. Né si deve pensare che sia rilevante solo la direzione di marcia da oriente a occidente: nei primi mesi tre mesi del 2017 l’export italiano in Cina è cresciuto del 31 per cento dopo un aumento del 6,4 per cento nel 2016.

Altro aspetto poco considerato, ma non per questo trascurabile, è la ricaduta sul lavoro delle nostre imprese negli altri paesi. Emblematico il caso di Italferr, società controllata da Ferrovie fra le più agguerrite in Europa nel campo dei grandi lavori infrastrutturali. "I nostri ingegneri" dice il presidente Riccardo Monti, già presidente dell’Istituto del commercio internazionale "sono fra i più bravi del mondo, ma abbiamo meno risorse dei nostri competitori da mettere nella parte finanziaria dell’offerta. Per questo ci capita di andare in scia dei grandi investimenti cinesi. In Etiopia siamo consulenti delle ferrovie locali per la linea Gibuti - Adiss Abeba, che si sta realizzando proprio grazie a un investimento cinese". Che sia la Cina a fare da ponte per l’ingresso delle imprese italiane in Africa può forse sembrare un paradosso. Ma solo fino a che non si pensi al ruolo che l’ex Impero Celeste si appresta a svolgere (e alle risorse che sta investendo) per lo sviluppo dei traffici planetari.

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Stefano Caviglia